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Pronto soccorso del de Lellis al collasso. «Qui i medici non vogliono venire». Ecco tutti i problemi. Intervista al direttore Flavio Mancini

di Giacomo Cavoli
Articolo riservato agli abbonati
Mercoledì 24 Agosto 2022, 00:10
5 Minuti di Lettura

RIETI - «Qualcuno si è mai chiesto perché l’Asl di Rieti, nonostante negli ultimi tre anni abbia bandito quattro concorsi a tempo indeterminato e dodici avvisi pubblici, non riesca più a trovare medici disposti a lavorare in pronto soccorso, cosa che accade anche nel resto d’Italia? Perché, dal 2022 ad oggi, nel nostro Paese perdiamo ogni mese 1.500 medici dell’emergenza per pensionamenti o abbandono? La risposta la possiamo trovare nei ritmi pesanti che non prevedono riposi durante le festività, almeno sei notti al mese di guardia, tante di giorno. E fare la guardia in pronto soccorso vuol dire essere svegli ed operativi dal primo all’ultimo minuto e avere un numero di giorni di ferie elevato, che spesso non possiamo sfruttare per la carenza di organico». 

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A spiegare e fornire numeri è Flavio Mancini, direttore del pronto soccorso dell’ospedale de Lellis di Rieti, dopo i due casi di lunghe attese raccontati da Il Messaggero, il 19 agosto, di un ultrasettantenne malato oncologico al quarto stadio, trasportato dal figlio all’ospedale di Terni per una trasfusione dopo otto ore trascorse nell’area triage del nosocomio reatino e quello, due giorni fa, di una 60enne con la caviglia malconcia, uscita dal de Lellis dopo oltre un giorno di attesa per effettuare esami e visita del medico. 

Dottore, al di là della massacrante quantità di lavoro determinata dal poco personale a disposizione del pronto soccorso, perché – come afferma Lei – i medici disertano concorsi e avvisi pubblici per posizioni aperte nel settore dell’emergenza? 
«I medici sono stanchi perché, nonostante l’impegno e la dedizione, non ritengono di dover venire più in pronto soccorso. A livello pubblico e privato, i giovani neolaureati preferiscono scegliere posizioni molto più tranquille e pagate meglio, e la retribuzione spiega anche la grande fuga dal sud e dal centro verso il nord, soprattutto Veneto e Trentino Alto Adige. A Rieti, dove le retribuzioni sono allineate agli altri ospedali, dobbiamo sottostare alla politica regionale, ma convincere un medico di Roma, Frosinone o Viterbo a venire a Rieti risulta a volte complicato, perché non è certo colpa della Asl se la città non è ben collegata a livello viario. E tutte queste cose vanno messe sul piatto della bilancia quando cerchiamo nuovi medici». 

Ci sono problemi di organizzazione interna del pronto soccorso? 
«Siamo un Dea di primo livello, ma con 60-70 chilometri di distanza prima di raggiungerne uno di secondo livello, ci siamo dovuti organizzare creando, ad esempio, una stroke unit o un’emodinamica che funziona 24 ore su 24: quindi il servizio che forniamo è ad ampio raggio. Non si tratta di un problema di organizzazione ma del fatto che, a livello di politiche regionali, non si è spinto molto sul territorio: di conseguenza, il paziente che ha problematiche socio-assistenziali trova una risposta nel pronto soccorso, il quale non dovrebbe però badare all’anziano malato di Alzheimer, perché non è quello il suo compito. Tuttavia, il nostro pronto soccorso è pieno di situazioni umane e sociali che niente hanno a che fare con l’emergenza, ma non per questo possiamo rifiutare un paziente che si reca da noi. Le persone non vanno dai medici di famiglia perché prescrivono loro una serie di accertamenti che dovrebbero eseguire nell’arco di diverso tempo, e pensano invece che da noi possano fare tutto, subito e gratis. C’è poi da considerare che a gennaio 2020 eravamo pronti per ristrutturare il pronto soccorso, e questo sarebbe stato fondamentale, rendendolo più moderno e accogliente: invece siamo stati costretti a bloccare i progetti, inserendo il nuovo pronto soccorso Covid. La nostra struttura è stata progettata nel 1995 e realizzata dopo circa 7-8 anni: è come compiere Rieti-Milano su un’auto di quasi trent’anni fa, il viaggio sarebbe molto più estenuante rispetto ad oggi. E’ una situazione che si verifica ovunque a livello nazionale, e i nostri governanti dovrebbero rendersene conto». 

Quindi Lei sta lanciando un appello rivolto alla Regione Lazio? 
«Assolutamente sì. Quando finirà il pronto soccorso, allora saranno veramente dolori: dove si andrà? Qui si sta giocando con il fuoco: abbiamo circa 90 accessi al giorno e quelli in codice rosso, da noi, attendono meno di un minuto prima di essere visitati. Poi ci sono codici gialli, verdi e bianchi ma, se vengono ingolfati da situazioni di non emergenza, allora i tempi d’attesa si dilatano e le persone si inquietano. Consideriamo poi che siamo anche in un momento in cui la cittadinanza è molto esigente nei nostri confronti: sostenendo di pagare le tasse e di voler essere curati, se vedono passare davanti a loro un bambino con shock anafilattico, non comprendono la necessità di doverlo curare con urgenza. Il 92-93 per cento dei circa 90 accessi giornalieri è soddisfatto del nostro lavoro, ma non lo dice: poi, invece, ci sono sempre quelle 4-5 persone che fanno baccano ma che, in realtà, tutta questa necessità di protestare non l’avevano». 

Dunque, di cosa avete bisogno? 
«Di un maggior numero di specialisti in medicina d’urgenza, che devono uscire dalle scuole di specializzazione: in questo senso, la politica miope del numero chiuso ha fallito. Mi auguro anche che con il Pnrr si metta mano al nuovo ospedale, con l’intenzione di dare una mano all’edilizia sanitaria. E’ necessario anche implementare la comunicazione con i medici di medicina generale, perché sono loro che orientano le necessità e danno le risposte principali ai loro pazienti: per fare questo, però, serve anche potenziare tutto ciò che circonda i medici di base».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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