​Tevere, quella porta sul mare garantì sicurezza e ricchezza

Tevere, quella porta sul mare garantì sicurezza e ricchezza
​Tevere, quella porta sul mare garantì sicurezza e ricchezza
di Andrea Giardina
Domenica 21 Aprile 2019, 10:26
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Il biondo Tevere era azzurro. Con questo colore – racconta Virgilio nel libro ottavo dell’Eneide – il fiume venne in sogno a Enea, che si era addormentato su una riva, angosciato per la guerra che gli muovevano le bellicose genti del Lazio. Il veloce pensiero dell’eroe è come la luce tremula dell’acqua in un vaso di bronzo, «riflessa dal sole o dal disco argenteo della luna… Era notte e su tutta la terra un sonno profondo avvolgeva le creature stanche, gli uccelli e gli armenti». Il dio del luogo, Tiberinus, gli appare tra le fronde di pioppo con la chioma ornata da un ombroso cespo di canne, velato da un lino sottile, avvolto da un manto azzurro. È un vegliardo che reca parole di conforto: «Io, che gonfio d’acque tu vedi lambire le rive e solcare feconde campagne, sono l’azzurro Tevere, al cielo il più gradito dei fiumi. Qui è la mia grande dimora…». 

Tiberinus predice eventi e incontri miracolosi, battaglie, vittorie, e annuncia all’eroe troiano che quello è il posto dove i profughi potranno stabilirsi e prosperare. Virgilio descrive la fine del sogno con una delle sue mirabili invenzioni. Il Tevere si dissolve nel Tevere, e come un ectoplasma il dio-acqua si immerge nell’acqua: «Disse, e tuffandosi il fiume si nascose nel suo letto profondo; notte e sonno lasciarono Enea» (trad. di Mario Ramous). 
All’alba del nuovo giorno il primo atto di Enea è religioso: «guardando all’orizzonte i raggi nascenti del sole, seguendo il rito, con le mani a calice dal fiume attinge acqua e al cielo effonde questa invocazione: «Tu, padre Tevere, con la tua sacra corrente, accogli Enea e dai perigli tienilo lontano. Qualunque fonte celi l’acqua tua, qualunque suolo ti partorisca così bello, tu, pietoso dei nostri travagli, sempre sarai celebrato con doni nei miei sacrifici, maestoso fiume, sovrano delle acque di Esperia. Ma tu assistimi e conferma, qui e ora, la tua profezia».

Dopo l’incontro con il dio, Enea agisce dunque da sacerdote, officia un rito e fonda in questo modo la religiosità tiberina, quel ricco complesso di culti rivolti al fiume che i romani celebravano fedelmente. Tiberino non ebbe mai un vero e proprio tempio, perché il fiume era una sorta di tempio di se stesso, un monumento sacro fluente, che si rinnovava di continuo e rinnovandosi restava identico e rassicurante. Alcuni di questi culti erano così antichi che persino i romani ne ignoravano il significato, mentre gli interpreti moderni non possono fare altro che depositare una sull’altra le loro congetture. Il caso tipico è il rito degli Argei, i fantocci di giunchi che una volta l’anno, al culmine di una grande cerimonia alla quale partecipava tutta la città, venivano gettati dal Ponte Sublicio. Nessuno studioso accoglie oggi la più diffusa spiegazione antica, secondo la quale i fantocci avrebbero sostituito un precedente sacrificio umano di nemici greci (nella poesia epica «Argei» indicava tutti i greci). Per quanto oscuro, era palesemente un rito di purificazione, perché a un fiume così sacro spettava il compito di allontanare dalla città le presenze inquietanti o nefaste, i misteriosi fantocci come i cadaveri di chi aveva commesso gravi crimini contro la famiglia o contro la repubblica. 

Nelle antiche leggende Roma nasce come una città aperta, e i suoi primi abitanti erano rappresentati come un miscuglio etnico e sociale. La purezza razziale e l’omogeneità etnica non avevano posto nei racconti delle origini. Attraverso il dio-fiume la natura coopera all’accoglienza, perché Tiberino è un fiume ospitale, che protegge Enea e i profughi troiani, ai quali offre le sue acque, i campi irrigati, una corrente navigabile. Ma è una modalità che si rinnova: dopo Enea e i suoi compagni, a godere della benevolenza del fiume saranno Romolo e Remo, abbandonati in una cesta in un punto dove la corrente scorreva vorticosa. Il fiume in piena fa galleggiare la cesta, la solleva dolcemente e quindi la deposita in un’ansa tranquilla, presso una riva dove il terreno è soffice. «Tiberino trattenne il fiume», dice un autore antico, ovvero trattenne se stesso. Per questo motivo Tiberino veniva detto Pater, padre dei romani e della loro città, genitore accudente e amorevole, al quale spettavano preghiere e offerte. 

Nella percezione degli antichi la geografia concorreva a determinare la virtù dei popoli e il Tevere aveva una funzione di primo piano nella spiegazione del successo mondiale dei romani. Il cuore del problema era il rapporto tra le città e il mare, sul quale si interrogarono molti autori, compresi i più importanti filosofi greci. Dove fondare la città ideale, quella che consentiva ai cittadini di vivere secondo giustizia, rispettando i valori tradizionali e condivisi, governati da leggi e istituzioni stabili? Vicino o lontano dal mare? I criteri di valutazione potevano essere vari (economici, militari o di altro genere) ma su tutti prevaleva la valutazione morale, dipendente da un antico e radicato pregiudizio nei confronti dei mercanti. Le città dove circolavano troppi mercanti – si ripeteva – erano organismi fragili e malati: le loro piazze risuonavano di parole false, di discorsi ingannevoli pronunciati da stranieri che avevano più a cuore i loro vantaggi materiali che il bene collettivo. 
«In quale altro modo, concludeva Cicerone, Romolo avrebbe potuto mostrarsi più ispirato, nel mettere insieme i vantaggi delle città marittime e nell’evitarne gli svantaggi, se non col porre l’abitato lungo la riva di un fiume dal corso costante e dall’ampia foce?». 

Roma, posta in un perfetto equilibrio tra la terra e il mare, reso possibile dal suo fiume, era cresciuta stabile e potente. La catastrofe di Cartagine era scritta nella natura, prima che nella storia. Dotata di troppi ormeggi, proiettata nel Mediterraneo, era una città prediletta dai mercanti, e i suoi abitanti, corrotti dai traffici e dalle menzogne, e quindi falsi e ingannatori, non avrebbero mai potuto aver la meglio sui romani. Siamo nel cuore di quella che potremmo chiamare l’«antropologia climatica» degli antichi, che classificavano i caratteri dei popoli secondo la loro collocazione geografica: l’Italia era la terra ideale perché posta in uno spazio temperato che evitava i freddi del Nord e i caldi africani, Roma era la città ideale perché era posta al centro dell’Italia, ovvero nel mezzo del mezzo, e per giunta in un punto mirabilmente intermedio tra il mare e la terra, protetta e servita dal dio Tevere che la metteva al tempo stesso in contatto con il resto del mondo. 
Questo rapporto armonico tra la città e il fiume era interrotto periodicamente dalla violenza delle acque. Tiberino non disciplinava più la corrente, che superava gli argini e sommergeva ampie aree della città, le strade, le piazze, gli edifici civili e religiosi. Per molti giorni lo stesso Foro Romano tornava a essere quello che era stato prima che i re etruschi lo bonificassero, un acquitrinio impraticabile. I cadaveri degli animali e degli uomini galleggiavano nella fanghiglia, le case venivano abbandonate, la gente cercava rifugio sui tetti. I Romani denominavano questo fenomeno aquae magnae, «acque grandi, alte» e lo consideravano un prodigium, alla stessa stregua dei terremoti, dei fulmini, delle eclissi, delle pestilenze. Nella documentazione antica esso è abbastanza attestato non tanto per i suoi risvolti materiali ma perché segnava un avvertimento, una rottura tra la dimensione terrena e quella superna, una «crisi» che doveva essere superata attraverso rituali pubblici gestiti dalle massime autorità sacerdotali: preghiere, sacrifici, offerte. 

Gli straripamenti del Tevere appaiono più numerosi nella fase di massima crescita dell’economia romana, dal II secolo a.C. al II secolo d.C. ed erano la conseguenza di un grave dissesto idrogeologico, connesso con un intenso diboscamento delle foreste appenniniche. La capitale dell’impero consumava legno come oggi petrolio: per l’edilizia, per il riscaldamento, per i piccoli utensili di uso comune; dalle foreste si estraeva inoltre la pece, indispensabile come oggi la plastica, per calafatare le imbarcazioni, per impermeabilizzare i contenitori, i soffitti e le pareti, per la medicina, per la cosmesi e per infiniti altri usi. Sembra che la connessione tra sfruttamento boschivo, erosione dei suoli e allagamenti non fosse chiaramente percepita dai romani, più sensibili ai risvolti religiosi che a quelli strettamente ambientali. D’altronde essi non avevano scelta: il legno era indispensabile, gli unici boschi sfruttabili erano, per ragioni di trasporto, quelli lungo il mare e i fiumi, il diboscamento provocava le alluvioni. Si poteva intervenire solo sugli effetti, curando gli argini, non sulle cause, tutelando le alture boschive.
Con maggiore o minore frequenza gli straripamenti del Tevere avrebbero accompagnato la storia di Roma per duemila anni, fino a quando, dopo la piena del 1870, fu avviata la costruzione dei grandi Muraglioni. Il fiume divenne allora un profondo canale, che non si offriva più alla vista dei cittadini ma doveva essere quasi cercato e riscoperto. È stato allora, direbbe Virgilio, che il dio Tiberino si è tuffato per l’ultima volta in se stesso, lasciando la sua città. 
 
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