Roma, caso Marra, ricorso della Procura: «Raggi mentì per non dimettersi»

Raffaele Marra
Raffaele Marra
di Michela Allegri
Giovedì 6 Giugno 2019, 10:14
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Inizia il secondo round. La Procura di Roma ha depositato il ricorso in appello contro l'assoluzione della sindaca Virginia Raggi, accusata di falso in atto pubblico e prosciolta in primo grado. Le motivazioni della sentenza con cui il giudice Roberto Ranazzi, lo scorso 10 novembre, ha fatto cadere le contestazioni a carico della prima cittadina non sono condivise dal procuratore aggiunto Paolo Ielo e il pm Francesco Dall'Olio, che puntano a ottenere una condanna nel secondo grado di giudizio. Per gli inquirenti, la sindaca avrebbe mentito alla responsabile Anticorruzione del Comune, dichiarando che il suo ex braccio destro, Raffaele Marra, non avesse avuto un ruolo decisionale nella promozione del fratello Renato - al vertice del dipartimento Turismo del Campidoglio -, e che si fosse limitato ad eseguire le sue disposizioni.

L'ABUSO D'UFFICIO
In realtà, per l'accusa, l'ex vicecapo di Gabinetto della sindaca avrebbe lavorato per mesi senza sosta per agevolare il fratello. Circostanza che gli costa l'accusa di abuso d'ufficio - Marra, già condannato per corruzione in un'altra vicenda è ancora sotto processo - e che ha portato la Raggi sul banco degli imputati, appunto, per falso. Nelle motivazioni con cui il giudice ha disposto l'assoluzione della prima cittadina, viene sottolineato che sarebbe stata «vittima di un raggiro ordito dai fratelli Marra». Una tesi che i pm respingono nelle trenta pagine di ricorso. Per gli inquirenti il movente della menzogna era duplice: difendere Raffaele Marra e, soprattutto, evitare nuove critiche e un'inchiesta che le sarebbe potuta costare l'incarico, costringendola alle dimissioni. La ricostruzione era stata smontata dal giudice di primo grado: «L'imputata non aveva alcun interesse a tutelare né la persona né la figura di Marra Raffaele e non aveva un interesse proprio a dichiarare il falso», si legge nelle motivazioni. I rapporti con Marra, infatti, nel dicembre 2016, data del presunto falso, si erano incrinati.
Nelle motivazioni si legge più volte che la nomina di Renato sarebbe stata «pianificata dai fratelli molti mesi prima, già dal luglio 2016, quale alternativa al diniego del sindaco per la nomina di Renato come Capo o Vice Capo della Polizia Locale». Nel documento c'è scritto anche i fratelli avrebbero «operato strumentalizzando l'assessore al Turismo Adriano Meloni, con cui Renato (su consiglio di Raffaele), aveva intrapreso una fattiva collaborazione». Il giudice sottolinea in più passaggi che i Marra avrebbero agito «all'insaputa del sindaco, allo scopo di ottenere per Renato un ruolo da dirigente».
Ora, la Procura passa al contrattacco: secondo i pm la sindaca avrebbe mentito consapevolmente, per difendere il suo ex fedelissimo e, soprattutto, per tutelare se stessa. I magistrati respingono la lettura dei fatti del giudice, che sottolinea come, seppure la dichiarazione fatta all'Anac non corrispondesse alla realtà, non sarebbe stato commesso nessun reato. Da un lato, infatti, la prima cittadina sarebbe stata ignara delle trame dei fratelli Marra e, dall'altro lato, mancherebbe il dolo, cioè il movente: «Saremmo di fronte a una rarissima ipotesi di falso ideologico senza movente o fine a se stesso, commesso senza alcuna ragione», scrive Ranazzi nelle motivazioni, recependo la tesi dei difensori della Raggi, gli avvocati Pierfrancesco Bruno, Emiliano Fasulo e Alessandro Mancori. Circostanza che ora la procura è decisa a smontare punto per punto nel processo d'appello.
 
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