Roma, dietro la rivolta di Rebibbia la regia dei boss romani

Roma, dietro la rivolta di Rebibbia la regia dei boss romani
di Giuseppe Scarpa
Mercoledì 6 Maggio 2020, 07:03 - Ultimo agg. 08:52
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In 70 si erano sollevati. I detenuti avevano ribaltato materassi, distrutto telecamere, aggredito gli agenti e preso possesso di un'ala del carcere di Rebibbia, nella Capitale. Una protesta, quella del 9 marzo, che aveva trascinato, dietro le barricate, altri 300 ospiti del carcere. Sobillati ad arte da uno zoccolo duro che ne tirava le redini. Attori interni al penitenziario mossi, a loro volta, dal grande crimine. È questa l'ipotesi al vaglio della procura di Roma che indaga per i reati di devastazione e saccheggio. Il pm che ha in mano il fascicolo, grande esperto in materia di carcere, è Francesco Cascini.

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L'INDAGINE
I detenuti ufficialmente hanno sempre sostenuto di essere preoccupati per la loro salute. Un possibile contagio di Coronavirus dentro Rebibbia, dove sono spesso stipati come sardine, potrebbe avere, se non immediatamente riscontrato, un impatto devastante.
Ma in realtà ci sarebbe qualcosa di più profondo. I primi due detenuti a fare le spese del repulisti dentro il carcere sono stati Leandro Bennato, uomo di Diabolik, gambizzato tre mesi dopo l'assassinio del suo capo, e Daniele Mezzatesta. Quest'ultimo è un 38enne romano condannato a 17 anni, perché in casa gli trovarono sei chili di tritolo, un kalashnikov, tre mitragliatori, un fucile a canne mozze, una sfilza di semiautomatiche e di revolver. Mezzatesta non ha mai detto nulla agli inquirenti sull'origine di armi e droga. Ma come capo popolo, assieme a Bennato ha dimostrato di avere una certa eloquenza. Avrebbe fomentato gli altri detenuti. Alla fine la decisione è stata quella di trasferirli nella casa circondariale di Secondigliano.
Ad ogni modo l'inchiesta cerca di capire l'evoluzione della protesta. Di certo la stretta delle visite ai detenuti, stabilite all'indomani dell'emergenza Covid-19, è all'origine di tutto. Ma più che un problema di carenza di affetti si tratterebbe di un difetto di comunicazione con il mondo esterno. Una misura che è una calamità per la criminalità organizzata. Un blackout informativo che fa saltare la diffusione di messaggi, destabilizza mafie o la criminalità più in generale. Alcuni dei detenuti non possono fare filtrare all'esterno le loro disposizioni. Gli ordini per tenere in piedi la macchina che fuori continua ancora a girare nonostante il Coronavirus. Come fare se un boss è rinchiuso in cella e non riesce a spedire le sue raccomandazioni fuori? O al contrario se non viene costantemente aggiornato? La protesta ha camminato veloce da un carcere all'altro del Paese, raccogliendo il veleno di molti pesci piccoli che si sono sentiti autorizzati a sfogare tutta la loro frustrazione. Alcune, probabilmente, erano manifestazioni spontanee, altre no. E forse, questo, è proprio il caso di Rebibbia.

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