Roma, la Pontina ostaggio dei rom: «Per andare via dal campo vogliamo case e un lavoro»

Roma, la Pontina ostaggio dei rom: «Per andare via dal campo vogliamo case e un lavoro»
di Mirko Polisano
Giovedì 2 Luglio 2020, 00:11 - Ultimo agg. 07:53
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«Vuoi rakija? Bevi rakija, fai foto. Noi puliti». Buzo si avvicina appena vede l’obiettivo della fotocamera. Da quando il campo rom di Castel Romano è diventato un caso politico oltre che mediatico, pretende di dire la sua. È un po’ il leader di questo insediamento che si articola lungo la via Pontina, dove però di «pulito» non c’è davvero nulla. È una bomba ecologica pronta a esplodere - o forse già scoppiata - in piena riserva naturale statale. Ci raggiunge offrendoci quella specie di vodka che però è la bevanda tipica dei Balcani per commentare l’ultimatum arrivato dalla Regione alla sindaca Raggi per l’imminente sgombero. «Siamo pronti ad andarcene, qui è tutto uno schifo. Non abbiamo niente - dice il leader e quasi portavoce dei rom - ma per lasciare tutto ci devono prima dare una casa e un lavoro. Io ho sei figli, sono qui dal 1990 e voglio svegliarmi in un letto pulito, farmi una doccia e avere un impiego. Ce lo deve dare il Comune, altrimenti da qui non ci spostiamo». Non si sa quanti precisamente abitano questa baraccopoli della periferia della Capitale, considerata sempre più Pomezia e sempre meno Roma. Nessuno osa mettere un piede al di là dei cancelli. Proviamo a entrare. Il Covid, a livello di tutela della salute, purtroppo è solo l’ultimo dei problemi. Le abitazioni sono container fatiscenti, dove per il caldo di queste afose prime notti d’estate i letti sono spostati all’esterno: «dentro è impossibile dormire, è un forno», dice una donna con in braccio una neonata. A ogni angolo, bambini e adolescenti che corrono tra la polvere e giocano a pallone in un terreno dove l’erba è alta e i topi sono ovunque. C’è chi è scalzo, i più fortunati hanno vecchie ciabatte. C’è chi è tornato da una mattina passata sulla metro B a chiedere la questua, suonando la fisarmonica. «Di qualcosa dobbiamo vivere - sottolinea un anziano - qui c’è chi ruba, chi scippa ma c’è anche gente che vuole lavorare».

 

 


I TRAFFICI
L’illegalità è il mondo intorno a cui si muovono queste anime. C’è chi sfrutta i minori mandandoli a chiedere soldi piuttosto che mandarli a scuola (quando ancora si poteva, ovviamente). La didattica a distanza qui non è mai arrivata. Sono arrivati, però, tablet, pc portatili e smartphone rubati ai pendolari della Pontina come ai giovani studenti nel centro di Pomezia città. All’interno di questo insediamento gli affari si fanno con le macchine. Spesso di grossa cilindrata che vengono rubate ovunque e che in questa terra di nessuno vengono smontate, private di ogni pezzo e poi incendiate e lasciate ormai carcasse arrugginite tra una baracca e l’altra. Anche quelle utilizzate per le rapine vengono date alle fiamme, in modo da essere così irriconoscibili. I blitz delle forze dell’ordine, così come gli interventi dei vigili del fuoco per sedare ogni singolo rogo, sono continui. Una pattuglia dei carabinieri presidia costantemente l’accampamento. I raid di chi abita nel campo riesce a sfuggire a ogni controllo. Sassaiole e rapine sono all’ordine del giorno per chi percorre quel tratto della statale 148. Il «girone dell’Inferno» è soprannominato dagli automobilisti il percorso a ridosso dell’accampamento. “Villaggio della solidarietà”, il nome esatto dell’insediamento ma come della pulizia, così della solidarietà non c’è traccia. In quest’area che sulla carta dovrebbe essere protetta e su cui insisterebbero anche insediamenti umani preistorici, si registrano tensioni e risse tra i differenti gruppi etnici che hanno vissuto e continuano a vivere fianco a fianco in un contesto sociale estremamente difficoltoso e delicato: bosniaci, serbi, croati, montenegrini e kosovari. Da sempre l’uno contro l’altro, tanto da dividersi in settori anche all’interno del campo: «Litigano tra loro - dicono le forze dell’ordine - c’è chi alza il gomito e chi risponde tirando fuori il coltello». E la guerra per la sopravvivenza, nonostante tutto, non è ancora iniziata. 

 

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