“Milano chiama, Napoli risponde” esordiva, con il suo faccione bonario e sorridente, Gigi Necco a inizio collegamento dallo stadio San Paolo di Napoli o dal Partenio di Avellino. Era il suo siparietto a Novantesimo minuto, i suoi commenti nei dopo-partita. Un giornalista sportivo, ma non solo: appassionato di archeologia e storia, cronista a tutto tondo che nella trasmissione “Nord chiama sud” aveva firmato alcuni servizi sulla ricostruzione e sul dopo-terremoto, Necco fu vittima di un agguato a colpi di pistola voluto dalla Nco di Raffaele Cutolo.
I precedenti
Non erano tempi di scorte e sorveglianze, disposte per giornalisti e scrittori più o meno noti, né di Comitati per l’ordine pubblico convocati per proteggere cronisti. Allora, erano gli anni Ottanta del secolo scorso, il rischio di raccontare era senza difese e affrontato in un clima generale di minore coscienza collettiva dei fenomeni mafiosi. Dal secondo dopoguerra, nove sono stati i giornalisti uccisi dalla mafia in Sicilia. Uno, in Campania: era Giancarlo Siani, ucciso su ordine della mafia-camorra della famiglia Nuvoletta il 23 settembre 1985. Siani era corrispondente da Torre Annunziata per “Il Mattino” e, in quei giorni, redattore in sostituzione estiva in Cronaca di Napoli nella redazione centrale di via Chiatamone. L'unica tragica vittima della camorra che, nella sua storia, finora non mai avvisato prima chi voleva eliminare o aggredire fisicamente. Come accadde per Giancarlo e come fu anche per Gigi Necco quattro anni prima di Siani. L’agguato a colpi di pistola di cui fu vittima era il primo della camorra contro un giornalista in Campania.
L'agguato
Era domenica 29 novembre 1981, l’anno successivo al terremoto in Irpinia. Necco era appena uscito dal ristorante Cynthia Park di Mercogliano, alle porte di Avellino, locale frequentato anche da sportivi e dirigenti della squadra irpina. Era stato a pranzo con alcuni colleghi, prima di spostarsi allo stadio Partenio per assistere alla partita Avellino-Cesena che avrebbe dovuto commentare per Novantesimo minuto. Il momento scelto dai killer non fu casuale e dimostrò non solo l’impudenza dei cutoliani, ma anche l’intenzione di lanciare un avvertimento anche ai colleghi che erano con Necco. Si pensò a più killer, che spararono tre colpi di pistola alle gambe del giornalista, che uscì dal ristorante con il collega della Rai, Emanuele Giacoia. In strada non c'era nessuno. Fecero cento metri fino alle auto, poi l'agguato mentre Necco apriva la portiera della sua Fiat 128. Lo colpirono alle gambe, mentre cercava di ripararsi dietro l’auto. Poi fuggirono, mentre i colleghi soccorsero il giornalista e lo portarono all’ospedale civile di Avellino. Dietro l’auto venne lasciata una scritta: «Non fare il criticone, attento ai commenti che fai». Trenta giorni fu la prognosi dei medici. A Necco era andata bene. Quindici giorni prima, nel suo commento a Novantesimo minuto dopo la partita dell'Avellino contro l'Ascoli, aveva fatto riferimento alla “disavventura” di Antonio Sibilia, presidente dell'Avellino, in soggiorno obbligato a Longiano, in provincia di Forlì, perché ritenuto affiliato alla Nco cutoliana. E, con le sue aziende, Sibilia si preparava a partecipare alle gare per gli appalti della ricostruzione.
Le motivazioni
A tavola, quel giorno Necco aveva raccontato ai colleghi di aver ricevuto una velata minaccia dopo il commento televisivo su Sibilia. Ad Antonio Aurigemma, il “Nacchettino” capo redattore del “Mattino” di quegli anni che ne raccolse le reazioni, disse ironico: “Vecchio mio, che sei venuto a fare in ospedale?” Aggiungendo: “Qualche scalmanato, qualche esaltato, ma come si fa a leggere nei colpi di pistola? Se qualcuno ha tentato di farmi stancare dell'Avellino, ha sbagliato”.
Altri cronisti avevano accennato alla “disavventura” di Sibilia, ma Necco pagò la sua popolarità che a 47 anni lo rendeva più seguito e credibile, oltre che ascoltato, di altri. Dopo l’agguato, persino il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, gli fece una telefonata di solidarietà. E lui, il giorno dopo commentò: “Bisogna sempre scegliere da che parte stare”. Una petizione a suo favore con venticinquemila firme, documenti ufficiali, attestati di simpatia si moltiplicarono. L'agguato era stato preparato con cura, ad eseguirlo si sospettò fosse stato Enzo Casillo, detto ‘o nirone, braccio destro di Cutolo. Un avvertimento a sangue. Qualche tempo dopo, venne arrestato uno degli esecutori. Si chiamava Antonio Schirato, giovane pregiudicato.
Il 31 ottobre dell’anno precedente, il presidente Sibilia aveva accompagnato in tribunale l’attaccante brasiliano Juary, idolo dei tifosi irpini, e gli aveva fatto consegnare una medaglia d’oro a Cutolo che era imputato dietro le sbarre. La medaglia aveva incisa la scritta “A Raffaele Cutolo dall'Avellino calcio”. Sibilia dimostrò anche in quel modo spettacolare la sua devozione a don Raffaele.
L’Irpinia verde, dove erano in arrivo i fondi della ricostruzione, divenne in quegli anni teatro di sangue e attentati di camorra. L’inchiesta sull’agguato a Necco fu coordinata dal sostituto procuratore Antonio Gagliardi. Ironia della sorte, l’anno dopo, il 13 settembre 1982, Gagliardi, che indagava sugli appalti della ricostruzione e i rischi di intromissioni della camorra cutoliana, fu vittima di un agguato a Monteforte. La sua auto, guidata dall’autista Stefano Montuori, fu bloccata da tre auto con gente armata di mitra. I due si salvarono per miracolo, grazie alla prontezza di riflessi dell’autista che riuscì a lanciare l’auto allontanandosi dai killer.
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