Criminapoli / 24: Antonio Spavone 'o malommo e la grazia di Saragat dopo l'alluvione di Firenze

Criminapoli / 24: Antonio Spavone 'o malommo e la grazia di Saragat dopo l'alluvione di Firenze
di Gigi Di Fiore
Venerdì 1 Aprile 2022, 13:00 - Ultimo agg. 17:22
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Quel suo soprannome, ‘o malommo, era un marchio d’infamia. Eppure, Antonio Spavone, omicida, capo di un gruppo della rinata camorra nel secondo dopoguerra, si conquistò nel carcere Le Murate a Firenze l’ammirazione per il coraggio dimostrato nel salvare sei persone durante l’alluvione del 1966. Era il famoso quattro novembre di quell’anno, quando l’Arno straripò invadendo anche le celle, i corridoi e gli uffici del carcere. Spavone non si spaventò, né pensò solo a mettere in salvo se stesso. Riuscì ad aiutare tre detenuti, ma anche due agenti di custodia e la figlia del direttore del carcere, che avevano rischiato di annegare per l’acqua che aveva invaso i loro alloggi. Tutti in salvo, grazie al suo intervento. Furono in quattordici i detenuti che si comportarono come Spavone, impedendo che l’acqua uccidesse guardie penitenziarie e familiari. Un gesto riconosciuto a Spavone, che era stato trasferito dal carcere napoletano di Poggioreale alla vecchia struttura fiorentina, un ex convento trasformato in carcere nel 1883 e poi chiusa nel 1985.

L'eroismo 

Fu drammatico quel giorno. Firenze non dimenticherà mai il quattro novembre del 1966, con lo straripamento dell’Arno che portò morte e distruzione. L’acqua invase Le Murate, tra urla, panico, inondazioni nei piani bassi del carcere. Il cappellano don Danilo Cubattoli fece aprire le celle, dove erano rinchiusi circa duecento detenuti che rischiavano di morire. Un’ottantina fuggirono, per essere poi ripresi quasi tutti nei giorni successivi. Altri si misero in salvo sul tetto. Ma qualcuno cercò di aiutare chi era in difficoltà. Lo ricordò uno di loro, Alessandro D’Ortenzi che raccontò, intervistato dalla Rai nel programma “La storia siamo noi”: «Ci demmo da fare ad aiutare anche le famiglie delle guardie. Anche la famiglia del direttore, che portammo nei piani alti, nei locali della sartoria». C’era tensione, qualche detenuto era rabbioso e voleva sfogarsi con delle donne che erano nella sartoria. Intervenne ‘o malommo e, con la sua autorità e decisione, li tenne a bada. Lo ricordò D’Ortenzi: «Chi non aveva nulla da perdere voleva violentare le donne. Spavone le ha difese». In nove furono graziati subito dal presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, il dodici dicembre successivo. Per altri cinque, segnalati dal direttore del carcere Michele Ferlito, la grazia arrivò agli inizi del 1967.

Tra questi, c’era anche Spavone, che tornò a Napoli con il riconoscimento presidenziale di aver compiuto “atti di eroismo”. Ma certamente, in quel 1967, tornato libero non pensò a smettere le sue attività criminali. 

Il boss

Spavone, su cui la prima biografia fu scritta per l’editore Pironti dal giornalista de “Il Mattino”, Mino Jouakim, era figlio di quella Napoli criminale che viveva di borsa nera e contrabbando di sigarette. Seguì il fratello Carmine, che venne ucciso dal capo camorra rivale Giacomo Mormone. Per vendicare la morte, durante un pranzo di matrimonio, Spavone uccise l'assassino del fratello. Lo massacrò con tredici coltellate. Senza pietà. Da allora, il soprannome del fratello Carmine, o malommo, che era stato anche del nonno, fu trasferito a lui. Era il 1945 e lui, figlio di una famiglia di pescatori, consolidò in carcere la sua fama di capo camorra. Intrecciò rapporti con i siciliani, rese solidi i suoi affari nel contrabbando di sigarette che continuò a gestire quando lasciò il carcere, graziato dal presidente Saragat. Un boss che viveva nel lusso a Posillipo. 

È lui il personaggio che, secondo un episodio mitizzato descritto nel libro di Joe Marrazzo e poi rappresentato nel film di Giuseppe Tornatore “Il camorrista”, Raffaele Cutolo avrebbe sfidato in carcere. Una sfida non accolta, dall’alto di chi si riteneva al di sopra del più giovane boss di Ottaviano. Scarcerato, nel 1976 Spavone rischiò di morire in un agguato. Un avvertimento della camorra cutoliana, secondo ipotesi mai accertate. Gli spararono in volto, con gesto di disprezzo. E il volto rimase deturpato, tanto da costringere Spavone a ripetute operazioni chirurgiche di plastiche facciali, eseguite anche negli Stati Uniti. Subito dopo l’agguato, fu ricoverato all’ospedale Cardarelli di Napoli, tra la vita e la morte. E qui, vestiti con camici bianchi da medico, si intrufolarono Enzo Perez, il più noto cronista di nera del “Mattino” di allora, con il fotoreporter del giornale Mario Siano. Entrarono, indisturbati, nella stanza dove il boss era ricoverato per intervistarlo. Spavone si terrorizzò, pensando che fossero killer arrivati per finirlo. Poi riconobbe Perez e esclamò: «Meno male, dottore, siete voi. Pensavo fossero venuti ad ammazzarmi». Ne uscì un’intervista scoop.

La Nuova famiglia

Tre anni dopo, per le dichiarazioni di alcuni pentiti, Spavone fu accusato dalla Procura di Napoli di far parte della Nuova famiglia, la Nf, il cartello di famiglie anti-cutoliane. Ma ne uscì prosciolto. Espulso come indesiderato a Ischia durante una sua vacanza, morì a 67 anni per un tumore. Nel suo letto, nella casa posillipina. Era il 5 maggio del 1993, quasi 30 anni fa. 

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