Lo specialista della materia è Catello Maresca, oggi sostituto procuratore generale, in passato uno dei pm della Dda di Napoli a occuparsi di indagini sul clan dei Casalesi. In quel periodo, Maresca ha monitorato e studiato i rifugi segreti di alcuni latitanti famosi di quell’organizzazione camorristica. Erano dei veri e propri bunker, costruiti con opere di sofisticata ingegneria e realizzati con la complicità di architetti e permessi amministrativi compiacenti.
Il più famoso
Il bunker più noto, su cui Maresca ha scritto un libro ed è stato protagonista di programmi televisivi dove ha raccontato la sua esperienza, fu quello di Casapesenna dove venne trovato Michele Zagaria, ultimo dei capi dei Casalesi arrestato dopo una lunga latitanza.
La prima generazione
La differenza tra bunker di prima e seconda generazione, oltre che nella maggiore tecnologia e nei costi, risiedeva anche nel periodo della loro utilizzazione. Evidente che i primi bunker, che avevano poche comodità, potevano essere abitati per poco tempo, costringendo i latitanti a spostamenti frequenti accompagnati da poche ore d’aria conquistate negli appartamenti sovrastanti. Era di prima generazione il rifugio di Antonio Cardillo, latitante del clan Lo Russo di Miano a Napoli. Al suo rifugio si accedeva con un telecomando, che apriva uno specchio collocato nella camera da letto dell’appartamento principale. Si trattava, dunque, di una specie di nascosta stanza aggiunta. Poco sofisticato anche il bunker dei fratelli Pasquale e Carmine Russo di Saviano di Nola, eredi del clan Alfieri. Il rifugio, la “tana” come Catello Maresca definisce questi nascondigli, si trovava in un casolare dietro la casa di un panettiere incensurato della zona. All’interno, fu trovato un rilevatore Gps di microspia, scanner per intercettare le conversazioni telefoniche della polizia e dei carabinieri.
I boss mafiosi storici di Cosa nostra sono stati sempre poco propensi a farsi costruire rifugi interrati. Hanno preferito vivere la latitanza nel disagio di cascinali di campagna all’aria aperta, come fece Bernardo Provenzano. E non a caso, fino al 1990, scelse lo stesso tipo di latitanza Lorenzo Nuvoletta, l’unico campano a far parte della commissione centrale di Cosa nostra. Per anni ha vissuto in un cascinale non molto distante dalla sua masseria di Poggio Vallesana a Marano, dominata da un enorme camino alla sinistra dell’ingresso. Nuvoletta venne preso dai carabinieri quando lasciò il suo rifugio poco distante per incontrare la moglie e i figli. Si sentiva al sicuro, ma gli investigatori tenevano d’occhio la masseria per aspettare il momento giusto per catturarlo.
La svolta
Dai rifugi rudimentali ricavati in locali dietro intercapedini o al di sotto di botole, si è passati ai bunker di seconda generazione a partire da Francesco Schiavone detto Sandokan, il primo tra i capi di vertice dei Casalesi ad essere arrestato. Si era fatto costruire sotto la sua villa un appartamento segreto di tre stanze, con bagno e cucina, accessoriato con tutti i confort. Zagaria andò molto più avanti, con un bunker dai costosi accessori: un televisore al plasma da 60 pollici, una seconda tv nel bagno, stereo e decoder satellitare. Ancora rimasti a vecchi metodi, invece, Massimo Di Caterino, sempre del clan dei Casalesi, che aveva realizzato una botola sotto la doccia azionabile con un telecomando, e Raffaele Diana, sempre dello stesso clan, che accedeva al suo rifugio da un buco a scomparsa dietro la dispensa di casa. Più rudimentale era stata la barriera creata da Pasquale Apicella, che nascondeva una camera da letto con bagno con delle balle di fieno.
Ha spiegato ancora Catello Maresca: «A Caserta e in Calabria esistono operai specializzati in queste opere, che vengono chiamati bunkeristi. Nel loro lavoro devono arrivare fino a sei mesi di profondità e disporre di ditte amiche e complicità».
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