Criminapoli 23 / Quei boss della camorra che scelsero il suicidio tra disperazione e solitudine

Criminapoli 23 / Quei boss della camorra che scelsero il suicidio tra disperazione e solitudine
di Gigi Di Fiore
Venerdì 25 Marzo 2022, 10:58 - Ultimo agg. 26 Marzo, 08:02
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Fu il primo in tutto. Primo pentito nella storia della camorra e primo, fra i pentiti, a tentare il suicidio. A lui ne seguirono altri ma, a differenza di Abbatemaggio, riuscirono a uccidersi davvero. Storie di una catena e una serie di disperati del crimine, gente dalle scelte sbagliate, che aveva creduto di poter trovare nella violenza o nell’affiliazione a un clan della camorra una speranza di futuro. Non era così, e qualcuno, dopo aver scelto di collaborare con i magistrati, ha concluso la sua vita facendola finita. Da solo.

Come provò a fare, il 29 gennaio del 1921, Gennaro Abbatemaggio. L’uomo che era stato strumento delle accuse montate ad arte e inventate, nell’inchiesta sul delitto Cuocolo con lo spettacolare processo, celebrato a Viterbo dal 1911, si sparò un colpo di rivoltella. Un gesto di disperazione, ma anche una reazione al mandato di arresto che gli era stato notificato, firmato dai magistrati di Santa Maria Capua Vetere per un furto. Abbatemaggio, ‘o cucchierello come veniva chiamato per il suo vecchio mestiere di cocchiere, rimase per quasi due mesi ricoverato all’ospedale dei Pellegrini dove fu salvato dai medici quasi per miracolo. Il colpo era passato vicino al cuore, ma non prese organi vitali. Quando lo dimisero, il pentito fu arrestato mentre era tornato alle sue precedenti abitudini, con le dubbie frequentazioni al bar Umberto sotto la galleria. Dopo la lieve condanna al processo Cuocolo, Abbatemaggio si era arruolato nell’esercito durante la prima guerra mondiale, poi al ritorno aveva aderito ai Fasci di combattimento. Quell’adesione divenne l’occasione per andare in giro in molte zone d’Italia, soprattutto a Firenze e in Istria, dove mise a segno i suoi furti. Dopo aver tentato il suicidio, con il ricovero e la sopravvivenza per miracolo, venne arrestato. Si difese, sostenendo che non aveva fatto nulla ed era stato calunniato dai socialisti per il suo impegno con i fascisti. Andò in carcere di nuovo per breve tempo, mentre una casa cinematografica dell’epoca si mise in contatto con lui, pensando di poter ricavare un film dalla sua storia.

 

PASQUALE FRAJESE

Non resse invece alla solitudine e allo sconforto di disperato il pentito che, con le sue rivelazioni, riuscì a far arrestare molti affiliati del clan Mariano dei Quartieri Spagnoli: Pasquale Frajese, detto Linuccio’ e Secondigliano per il suo quartiere di origine. Il 27 febbraio del 2006, assalito dai fantasmi del passato, Frajese si uccise e fu trovato morto nella casa alla periferia di Firenze dove era stato trasferito in una località protetta.

Si era impiccato. Solo, lasciato dalla moglie, senza un lavoro, a stento in grado di leggere, compì il suo gesto disperato. Era stato nel gruppo di killer della guerra di camorra tra il clan Mariano e le famiglie che volevano allontanarsene per mettersi in proprio. Il suo arresto fu legato all’agguato fallito, in cui perse la vita l’agente di polizia Salvatore D’Addario che, nonostante fosse fuori servizio, tentò di fermarli. La caccia a quei killer fu rapida e Frajese venne catturato, iniziando quasi subito a collaborare. Le sue dichiarazioni furono fondamentali, raccontò di quel gruppo di “batteria di fuoco”, che si aggirava nei locali notturni di piazza Municipio, si riuniva a sniffare cocaina, pronto a uccidere. Una vita disperata, che si concluse in maniera disperata.

MARTINO GALASSO

Aveva 52 anni Martino Galasso (nella foto), fratello del più famoso pentito del secondo dopoguerra, Pasquale. Era stato inconsapevole strumento dell’arresto del boss Carmine Alfieri, destinato a diventare anche lui collaboratore di giustizia. Per dimostrare la sua credibilità, infatti, Pasquale Galasso aveva indicato ai magistrati il rifugio segreto di Alfieri. E, senza fargli sapere nulla delle reali intenzioni di quel gesto, aveva chiesto al fratello Martino di “portare un libro al compare”. Era una trappola per Alfieri, di cui fu strumento Martino Galasso: i carabinieri lo seguirono per catturare il boss latitante. Proprio come era stato cinque anni prima per Frajese, trovarono Martino Galasso morto impiccato nella sua casa protetta a Viterbo. Prima di diventare collaboratore, Martino era stato avvicinato da affiliati del clan per uccidere il fratello. Ma non ebbe il coraggio di eseguire quell’ordine e scelse di iniziare la collaborazione con la giustizia. A corto di soldi, in contrasto con il fratello Pasquale, Martino Galasso fece la scelta della disperazione.

GIUSEPPE PETRONI

Era un collaboratore di giustizia poco noto. Un affiliato di seconda fila del Casalesi. A 54 anni, Giuseppe Petroni, originario di Pignataro Maggiore a affiliato del clan Lubrano, venne trovato morto nella sua cella nel carcere di Sollicciano. Una morte misteriosa, secondo molti. Era il 26 giugno del 2020. Poco meno di due anni fa, quando l’Italia viveva il primo lockdown della pandemia. Petroni aveva scelto di collaborare da otto anni. Aveva chiesto il trasferimento in un altro carcere, indicando Vasto o Prato. Aveva denunciato di aver ricevuto minacce. La sua compagna non ebbe dubbi: “Lo hanno suicidato” disse. E su quella morte in carcere sono rimasti molti dubbi, anche sulle modalità mai chiarite. C’è chi riferì che si era impiccato con del ferro ricavato dalla brandina del letto. Ma sull’inchiesta seguita alla morte, in periodi di informazione monopolizzata dal Covid, poco si è riusciti a sapere.

Gennaro Abbatemaggio, Pasquale Frajese, Martino Galasso, Giuseppe Petroni: quattro storie emblematiche di disperazione e suicidi legate alla scelta di vita nel crimine, seguita da una successiva collaborazione con gli inquirenti. Tra i quattro, solo Abbatemaggio, nel 1921, si salvò dal suo tentativo di uccidersi. Il più calcolatore di tutti. Quello che inventò molte delle sue affermazioni imbeccato dai carabinieri. Il primo pentito nella storia della camorra. Tristi, invece, le storie degli altri tre. Fanno riflettere su come l’importante scelta della collaborazione con la giustizia debba essere sempre sostenuta da una sistematica assistenza psicologica.

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