CrimiNapoli / 8, Ferdinando Russo e la poesia per il capo della camorra don Ciccio Cappuccio

CrimiNapoli / 8, Ferdinando Russo e la poesia per il capo della camorra don Ciccio Cappuccio
di Gigi Di Fiore
Venerdì 3 Dicembre 2021, 11:35 - Ultimo agg. 18:52
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Su quella poesia fu molto criticato. “Il Mattino” si pubblicava da appena nove mesi e lui, Ferdinando Russo, ne era il primo capocronista che non disdegnava di scrivere sul giornale versi provocatori. Poeta, autore di canzoni e di libri, non si perdeva in invenzioni né infiocchettava quello che voleva raccontare. Lo ispirava la realtà napoletana meno luccicante, quella della gente disperata e anche dei camorristi. Ma in quel dicembre del 1892 esagerò. Dedicò un’intera poesia al capintesta della camorra napoletana, il capo dei capi di allora. Si chiamava Ciccio Cappuccio, morì per un attacco cardiaco il 6 dicembre 1892. Era in un ristorante di Montevergine, dopo l’abituale gita al santuario della Madonna di cui era devotissimo, in compagnia di una comitiva di amici. Ridevano e scherzavano dinanzi a piatti con pietanze sostanziose, quando “don Ciccio” abbassò la testa sulla tavola lanciando un ultimo rantolo. Era morto chi aveva preso il posto di Salvatore De Crescenzo al vertice della camorra napoletana divisa nei dodici quartieri cittadini. Ogni zona era controllata da un capintrito. E proprio i dodici capintrito designavano la guida suprema, il capintesta. 

Nelle zone della Vicaria, di San Ferdinando e Montecalvario vivevano i camorristi più violenti, che prevalevano sugli altri.

Ernesto Serao, inviato del “Mattino” al processo Cuocolo a Viterbo, scrisse: “La camorra di Montecalvario per circa un quindicennio si è vantata di dare un deputato al Parlamento”. Con i loro metodi, i camorristi imponevano candidati politici.

Ciccio Cappuccio controllava le estorsioni sui guadagni dei cocchieri e il pizzo sulle aste pubbliche. A lui si rivolgevano in tanti per chiedere il suo intervento nella soluzione di contrasti violenti. Su di lui fioccarono leggende e aneddoti. Come quella della richiesta ricevuta indirettamente addirittura dal questore Ermanno Sangiorgi, per recuperare l’orologino d’oro tempestato di gemme che era stato rubato alla moglie del ministro dell’Interno, Giovanni Nicotera. A tempo di record, la baronessa Gaetanina Poerio-Nicotera riebbe il suo orologino. Ma ancora più incredibile era la storia della tabacchiera d’oro rubata al procuratore generale Michele Pironti, futuro ministro della Giustizia. Un amico del magistrato si rivolse proprio al capintesta per cercare di riavere il prezioso oggetto e fare bella figura. Sono solo due dei tanti aneddoti su recuperi di oggetti rubati a personaggi della Napoli bene che solo il capo dei capi, rispettato e temuto da tutti i delinquenti della città, poteva riavere indietro. 

 

Un mito criminale, ingigantito da leggende sul camorrista violento che “faceva del bene alla povera gente”. Un’idea mai scomparsa in alcuni ambienti sociali, anche in tempi recenti. Ne è stato esempio Raffaele Cutolo. Alla morte di Ciccio Cappuccio, sul “Mattino” la notizia fu data con questo commento: “La sua morte ha messo la costernazione nei napoletani che ricordano i fatti della camorra di un tempo”. Ma Ferdinando Russo andò oltre, dedicando anche una poesia al capintesta che riteneva una specie di “eroe popolare”. Con questi versi conclusivi: Cu Ciccio è mmuorto ’ genio / d’è palatine ardite! / Picciotte e capepuopolo, / scugnizze e cuntaiuole, / chiagnite a ttanto e lacreme / ite perdut’o Sole! 

Era la “Canzone ’e Ciccio Cappuccio”, pubblicata sul “Mattino” il 9 dicembre 1892. Erano passati solo tre giorni dalla morte del capintesta che, per coprire le sue attività, gestiva in via Nardones un negozio di carrube e crusca, gli alimenti per i cavalli. Proprio sul mercato dei cavalli e sul lavoro dei cocchieri il capintesta gestiva un controllo totale che gli fruttava corposi guadagni. La poesia fece scalpore e scatenò polemiche. E su Ferdinando Russo, che al mondo della malavita cittadina dedicò poesie e raccolte di versi, nacque anche la fama di personaggio vicino alla camorra. Magro, capelli neri corvino, baffi malandrini, occhio vispo, il poeta-giornalista aveva una camminatura caratteristica a passettini e con le punte in dentro. Spalle strette e capo chino si muoveva con quella sua andatura naturale, che aveva in comune con gli affiliati alla camorra. Una coincidenza che accrebbe la diceria, alimentata da due presunti soprannomi che il poeta si sarebbe conquistato in quegli ambienti: ’o milurdino e ’o sturente. Nella criminalità di fine ’800 erano le definizioni che si attribuivano a chi, come si direbbe oggi, aveva rapporti di “concorso esterno” con la camorra, senza appartenervi direttamente.

Scrisse il giornalista Alberto Consiglio, che fu direttore del “Risorgimento” nel dopoguerra e poi deputato monarchico: «La verità era un’altra, Ferdinando Russo giocava al verismo, come tutti i grandi scrittori e poeti e giornalisti napoletani di quel periodo. Per Russo l’impegno fu più forte e più vasto». Così vasto che il giornalista-poeta frequentava i luoghi dei camorristi, da cronista non si faceva scrupolo di parlarci, conoscerli, comprenderne le motivazioni e le storie. Per lui era materia di scrittura e fonte d’ispirazione, niente altro. E così nacque anche la sua conoscenza con il capintesta Ciccio Cappuccio e con il guappo Teofilo Sperino. Ne studiava i modi, il dialetto. E così descrisse quelle frequentazioni lo stesso Ferdinando Russo: «La frequenza delle mie escursioni notturne in quei siti, il pellegrinaggio fra taverne, caffè malfamati, pizzerie e bottiglierie dei bassi quartieri, mi aveva messo in grado di ravvisare e notare non pochi tipi». 

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Nacque così anche il suo romanzo “Memorie di un ladro” in cui in prima persona, fingendosi il ladro protagonista, racconta dal di dentro quegli ambienti. «Gli uomini di scienza sono pregati di esaminarmi scrupolosamente, attraverso le pagine del mio racconto», scrive nelle pagine di incipit del libro che pubblicò 15 anni dopo la morte di Ciccio Cappuccio.

Ispirazioni dirette, osservazioni e conoscenze reali conservando distinzione di ruoli e comportamenti. E l’io narrante, che sarebbe stato utilizzato su questi temi anche in epoche successive ma con conoscenza filtrata da atti e libri, era in quel caso davvero giustificato. Scrisse Oreste Giordano, principale biografo di Ferdinando Russo: «La sua non fu esercitazione letteraria, fu sensazione di un’esistenza che volle vivere prima di rivelarla nella sua tenebrosità. E sfidò, spesso, gravi pericoli».

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