I calciatori ne sono pieni, quelli delle attrici famosi sono diventati argomento di gossip e articoli sui settimanali rosa. I tatuaggi sono diventati una scelta estetica, che fissano ricordi e identificano una vita. Segni distintivi di personaggi dello spettacolo e delle cronache rosa, ormai di moda. Ma nell’800, invece, il tatuaggio caratterizzava soprattutto gli affiliati alla camorra napoletana. Tanto che l’antropologo Abele De Blasio ci pubblicò studi e libri, catalogando i tatuaggi attraverso osservazioni dirette sui camorristi detenuti. Anche di recente, soprattutto tra i clan con affiliati giovanissimi, il tatuaggio è sempre più diventato un simbolo di appartenenza a un gruppo, la testimonianza sul proprio corpo, indelebile e per sempre, della fedeltà a un capo.
Emanuele Sibillo e il 17
Nell’ormai pluri-raccontata storia dei gruppi di ventenni che si fecero clan nel centro storico, dissolvendosi poi tra pentimenti e arresti, la parabola breve di Emanuele Sibillo è la più famosa. Ucciso in uno scontro-agguato il 2 luglio 2015 a 18 anni, colpito alle spalle mentre era in fuga, divenne un simbolo dei coetanei con velleità criminali, tanto che la famiglia e il suo gruppo imposero altarini nel quartiere, con tanto di foto e statue a ricordo di una devozione da regole di camorra. Un capo giovanissimo, violento e spavaldo, che aveva imposto ai suoi giovani compagni di estorsioni e spaccio di droga, un tatuaggio simbolo: ES17. Naturalmente, ES stava per Emanuele Sibillo. Il 17 lo spiegò un affiliato a un’amica, in una telefonata intercettata dagli inquirenti. “Il 17 fu uno scherzo. Lui è sempre stato un ragazzo che gli piacevano molto le gatte nere, per le cose più sadiche. Gli dicevo tieni il 17 dietro la schiena e lui rispondeva il 17 il 17”. Ci volle un attimo per far diventare quel numero il segno caratterizzante del clan, accompagnato dalle iniziali del capo ucciso. Ma altri spiegano il 17 come doppio marchio del cognome Sibillo che inizia per esse, la diciassettesima lettera dell’alfabeto, appunto. Alla morte di ES17, il tatuaggio venne in parte modificato in FS17, famiglia Sibillo. Un clan che intimoriva vicini e passanti nel vico Santi Filippo e Giacomo di fronte la scuola media Confalonieri di via San Severino. E ci volle la campagna di stampa del “Mattino”, e soprattutto un provvedimento della Procura di Napoli, per far smantellare il grosso altarino con l’immagine-icona di ES17, che simboleggiava la presenza del clan, il ricordo del baby-boss ucciso, il potere di spaccio e di violenza della famiglia.
Cartoni animati
Le scritte tatuate fanno sempre riferimento a un vezzo, una passione, un interesse del capo. Gli affiliati se lo marchiano sul corpo a vita. Gli appartenenti al clan di Marco De Micco di Ponticelli nell’area orientale di Napoli si facevano tatuare il nome Bodo, che poi è un personaggio dei cartoni animati. Il personaggio preferito del capoclan, soprannominato proprio Bodo. E quel nome i suoi affiliati se lo facevano incidere ognuno in una parte diversa del corpo. A piacimento. Ad abbondare, qualcuno ci faceva aggiungere la frase “rispetto, fedeltà, onore” per dimostrare l’incondizionato culto nei confronti del capo, che assicurava “mesate” e guadagni attraverso la vendita della droga e le estorsioni a tappeto nell’area orientale di Napoli.
Fraulella
Ma quella stessa zona della città sembra essere diventata quella dove la distinzione, lo stemma di appartenenza attraverso l'immagine o la scritta comune incisa sul corpo degli affiliati sembra più diffuso. Ne è esempio anche il clan D’Amico del rione Conocal, roccaforte di quella famiglia camorristica. Ogni componente del clan aveva un soprannome, ma quello del capoclan Giuseppe D’Amico, come d’uso, divenne il tatuaggio simbolo del clan: “fraulella”, piccola fragola. Inciso con caratteri diversi, persino gotico, o tutto maiuscolo, a volte accompagnato con la data di nascita. Le variazioni sul tema erano diffuse anche nel clan D’Amico, con disegni di vario tipo ad accompagnare il nome “fraulella”: proiettili, occhi di donna, una rosa, una croce.
Sempre area orientale, sempre segni distintivi. E anche gli affiliati del clan Rinaldi hanno marchiato l’appartenenza a quel gruppo con un simbolo. Stavolta un numero: il 46, che poi era il numero civico della casa del capoclan Ciro Rinaldi, soprannominato “My way”, al rione Villa.
Un modo per marchiare l’affiliazione, come a dire: non tradisco, sono fedele al clan tanto da inciderne la caratterizzazione per sempre sul mio corpo.
I barbudos
A scanso di equivoci, c’è stato anche chi si è fatto incidere sul proprio corpo il nome di un riferimento di quartiere. Lo fece Raffaele Cepparulo, che si era fatto tatuare il nome di Antonio Guidoni del rione Sanità. Simboli che poi diventano ingenue fonti di prova, dimostrazione giudiziaria di appartenenza criminale. Quasi un’auto accusa, la confessione di far parte di un’associazione camorristica. Ostentazioni che hanno sempre caratterizzato la camorra rispetto alla mafia, più silenziosa e meno rumorosa negli atteggiamenti e nei gesti dei suoi affiliati. Ostentazioni riportate, soprattutto dai più giovani, sui social con foto, frasi, video che diventano altrettante fonti di prova e, spesso, anche strumento degli inquirenti per individuare latitanti.
Sono lontani i tempi di Abele De Blasio che, nella catalogazione dei tatuaggi dei camorristi dell’800, evidenziava come erano assai spesso espressioni malinconiche di chi raccontava la propria scelta di vita come obbligata per destino, una predestinazione sociale, magari nata da un casuale episodio fortuito, in cui la strada non era che quellaa dell'uso di coltelli e pistole, pure riprodotte sul corpo. Ma molti si facevano tatuare i nomi di una donna, la propria “innamorata”, o le immagini di Madonne e di Gesù. Disperazione, diffusa soprattutto tra i camorristi detenuti osservati da De Blasio, che raccontavano i loro destini in questo modo. Parlavano con ’e signe, come i camorristi di allora chiamavano i loro tatuaggi. Segni che, a due secoli di distanza, non sembrano affatto rimossi.
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