Negli anni Ottanta, Domenico Rea scrive di come a Napoli sia possibile che un abitante di Posillipo, napoletano a tutti gli effetti, non si riconosca in uno di Forcella, anch'esso napoletanissimo, e che entrambi si ritengano assai diversi e più autentici di chi risiede ai Camaldoli, a Santa Lucia o a viale Augusto. La lontananza è più percepita che reale, lo sanno tutti. Nel 95, ci pensa Gigi D'Alessio a renderlo ancora più noto cantando che O' Vommero è vicino a' Sanità. Oggi, il cittadino convinto di essere più napoletano di un altro napoletano in base al quartiere in cui vive, gode di meno simpatia. Eppure, resiste un orgoglio fondato su credenziali di vicolo, di affaccio a mare, di realtà popolare, borghese o difficile, da cui la domanda: il napoletano verace è colui che deve lottare per ogni minima cosa, o quello che, davanti al bordello quotidiano, la prende con filosofia? Quanto conta la disponibilità o la precarietà economica nel ritenersi rappresentante originale della città? Non lo so. Proprio in questi giorni, però, mi è venuto in mente che a influire potrebbe essere il trasporto pubblico. Malgrado le grandi promesse e gli annunci, attualmente non è in grado di connettere in maniera adeguata tutti i pezzi di città, tanto che basta uno sciopero dei taxi per rendere 7 chilometri tanti separano il lungomare dall'aeroporto una traversata biblica. I più napoletani di tutti sono, dunque, quelli rimasti a piedi.
Non dirgli mai... che c'è lo sciopero dei taxi
di Raffaella R. Ferré
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Sabato 25 Giugno 2022, 11:00
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