Iaia Forte e la sua Napoli: «Così il munaciello ispirò la mia arte»

Iaia Forte e la sua Napoli: «Così il munaciello ispirò la mia arte»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 8 Ottobre 2021, 16:00
4 Minuti di Lettura

«Più passano gli anni e più aumenta il mio amore per questa città. Più mi allontano e più cresce il desidero di tornare». Iaia Forte, gran signora del teatro napoletano e del cinema italiano, non sta nella pelle al pensiero che, ad aprile, reciterà al teatro Diana. E, dunque, per ben tre settimane dovrà rimanere a Napoli. In scena la prima trasposizione teatrale del pluripremiato film Mine Vaganti del regista Ferzan Ozpetek. E lei, Iaia, è tra i protagonisti.

Video

Oltre venti giorni di fila qui in città.
«Mi sembra un sogno».

Alla fine corre anche il rischio di annoiarsi.
«Impossibile. Anzi, non vedo l'ora di arrivare».

Qual è la prima cosa che farà?
«Sempre la stessa: colazione al bar Cimmino a piazzetta Rodinò: cornetto crema e amarena e cappuccino.

Tappa irrinunciabile».

Zona Chiaia, insomma.
«Dopo trent'anni che vivo a Roma - e vado e vengo appena posso - mi sono fatta un regalo. L'anno scorso ho comprato una casa, molto piccola, a via Carlo Poerio. Pochi metri quadrati ma è quello che desideravo».

Il classico pied à terre.
«Quando, giovanissima, vinsi il concorso per entrare al Centro sperimentale di cinematografia di Roma, l'idea di andare a vivere altrove mi entusiasmava. Ricordo che lasciai Napoli, e la mia casa, con gran disinvoltura e poca nostalgia».

E poi?
«Poi invece no. Col passare degli anni il senso di appartenenza si è acuito - e anche la voglia di tornare sempre più spesso. Dico sul serio: mi manca tutto di questa città».

Che cosa in particolare?
«L'odore del mare, l'atmosfera, la luce, l'energia che mi trasmette appena metto piede alla Stazione centrale. Ho viaggiato molto, sono stata in luoghi straordinari ma Napoli è un'altra cosa. È come un quadro che hai sempre davanti agli occhi dal quale non riesci a staccarti. Senza contare che essere nata qui mi ha anche agevolato a far l'attrice».

In che senso?
«Il dialetto. Carlo Cecchi, attore e regista fiorentino, con cui ho lavorato a lungo, quando provavamo Shakespeare poi mi chiedeva di tradurlo in napoletano. Diceva che era una lingua musicale, una melodia che ben si prestava a ogni interpretazione».

D'altronde è la lingua del teatro del grande Eduardo.
«È così. Per un attore parlare il napoletano vuol dire avere una chance in più rispetto agli altri».

Recitare in Qui rido io di Mario Martone sarà stata una bella soddisfazione visto che il regista è napoletano e il film è tutto in dialetto.
«Non solo. Ho fatto cinema con i miei amici storici, un'occasione unica e speciale. Toni Servillo è stato il primo a credere in me. In teatro ho debuttato con lui vincendo per Il misantropo di Molière anche il premio della critica come migliore attrice».

E poi Martone. Ha lavorato tanto anche con lui.
«Bravissimo, un maestro al quale devo molto. Girare con Mario è sempre un'esperienza straordinaria. Qui rido io poi ha messo tutto insieme: gli amici, i professionisti e la storia di uno dei personaggi più illustri della tradizione del teatro napoletano. Non avrei potuto chiedere di più».

All'appello mancava solo Corsicato, altro regista del cuore.
«Grande amico Pappi. Che belli quei film interamente ambientati a Napoli. Penso a Buchi neri, girato anche alla Solfatara - altro pezzo di territorio che amo da morire - e nelle periferie che ho imparato a conoscere meglio proprio grazie a quella pellicola».

Non solo Chiaia, dunque.
«Con Corsicato abbiamo lavorato ovunque. Libera, ad esempio, la sua opera prima, è girata alle Vele di Scampia. Lo sfondo era quello di una Napoli moderna e degradata, molto poco folkloristica e non da cartolina. Senza contare che sono cresciuta ai Quartieri spagnoli».

Abitava lì?
«Mia nonna. E io passavo un sacco di tempo con lei. Mi raccontava del munaciello, lo spirito dispettoso che circolava indisturbato per casa».

Lei credeva al munaciello?
«La ascoltavo incantata. Senza sapere quanto quella capacità di immaginazione che mi stava trasmettendo con le sue storie, sarebbe stata importante per il mio lavoro».

Ancora un ricordo.
«Edenlandia. Proprio qualche sera fa, a cena fuori con alcuni amici napoletani, l'odore di un piatto di patate fritte ci ha fatto pensare a quello inebriante delle graffe che si vendevano nel parco giochi di Fuorigrotta».

Un tuffo nel passato.
«Quasi ci siamo commossi. Chi ricordava le canoe a forma di tronco, chi la vecchia America, il galeone dei pirati, le montagne russe, la casa dei fantasmi e il castello di lord Sheidon. Tempi meravigliosi, sembra ieri. Purtroppo non lo è, ma va bene lo stesso».

© RIPRODUZIONE RISERVATA