La prima volta di Elisabetta Garzo:
«Magistrato a 24 anni,
processai il bel René»

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di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 12 Giugno 2020, 18:00 - Ultimo agg. 13 Giugno, 12:12
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Aveva solo 24 anni, Elisabetta Garzo, quando - nel luglio del 1979 - arrivò, come uditore giudiziario, al Tribunale di Napoli. Una ragazzina, ma grintosa, determinata e ben preparata: il liceo Umberto, la facoltà di Giurisprudenza, la passione per il diritto penale e quel concorso in magistratura vinto al primo colpo, grazie al quale finì in vetta alla classifica dei vostro onore più giovani del paese. Il primo processo non si scorda mai e la Garzo ne parla come se fosse ieri. Mise le mani su un'associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di sostanze stupefacenti: indagini meticolose, che arrivarono dritte in un laboratorio di raffinazione dell'eroina, legato al clan dei Marsigliesi - banda di criminali venuti d'Oltralpe, specializzata in droga, racket, gioco d'azzardo, usura, rapimenti, traffico d'armi e prostituzione. 

Debutto in grande.
«Processo Trombin, ricordo ancora il nome. Erano gli anni Ottanta, per l'epoca fu una scoperta significativa. Il consumo di eroina cominciava a crescere drammaticamente tra i giovani, Milano poi era piena, e smantellare quella centrale fu un passaggio importante nella guerra ai trafficanti».

Quindi, lei era a Milano?
«Sì. Dopo un periodo di tirocinio alla Corte di Appello di Napoli, venni assegnata al Tribunale di Milano: a un anno dalla nomina, presiedevo un collegio penale».

Un altro processo che non scorda?
«Il bel René non si può dimenticare».

Vallanzasca?
«Quattro ergastoli e 296 anni di carcere. Personaggio delinquenziale, che ha gestito per anni la malavita milanese. Un pericoloso bandito, sia chiaro, ma - lasciatemelo dire - a suo modo affascinante. Lo giudicai per direttissima, in seguito al ritrovamento di armi nel giardino di casa sua». 

Quanti anni è rimasta a Milano?
«Quattro, ma molto intensi. Il terrorismo avanzava, erano gli anni di piombo, quelli degli attentati e della strategia della tensione. Una mattina, in ufficio, arrivarono gli agenti a consegnarci i giubbotti anti-proiettile, che avremmo dovuto indossare in particolari situazioni di pericolo». 

Giovanissima e già in prima linea.
«Lavoravo con Piercamillo Davigo, stessa sezione, e fui giudice a latere - quelli che siedono accanto al presidente e formano con lui il collegio giudicante - di Francesco Saverio Borrelli».

Belle soddisfazioni.
«Se mi riconosco un merito, è quello di non essermi mai tirata indietro davanti al lavoro, lontana da correnti e schieramenti, nel rispetto di un rigore morale che ritengo imprescindibile: la carriera me la sono costruita da sola. Sarà perché questo mestiere l'ho sempre fatto con passione e senza fatica, ma ancora oggi non riesco a immaginare un impegno diverso». 

Torniamo a Milano e a quei processi.
«Sono passati una quarantina d'anni, se scavo tra i ricordi, mi torna in mente una sentenza in particolare, di cui fui giudice estensore».

Quale?
«Il processo era quello legato all'incidente che funestò il Gran Premio d'Italia del 10 settembre 1978, a Monza, e causò la morte di Ronnie Peterson. Il pilota svedese rimase intrappolato nel fuoco per diversi interminabili secondi, prima di essere estratto da alcuni colleghi. La colpa cadde su Riccardo Patrese».

Fu ritenuto colpevole della morte di Peterson?
«Un caso complesso. Girava tutto intorno alla partenza delle auto: Patrese era scattato sulla destra e poi rientrato, manovra che avrebbe causato l'incidente. L'accusa fu di omicidio colposo».

Come si concluse la vicenda?
«Patrese venne assolto per non aver commesso il fatto. I filmati misero in evidenza che non fu lui a innescare l'incidente. Un epilogo che fece scalpore». 

Da Milano a Napoli: prima donna a capo del tribunale.
«Ho iniziato in quelle aule da uditore giudiziario nel '79 e lì ritorno come presidente ora, nel 2020».

Lo avrebbe mai detto?
«Non lo so. Comunque è un orgoglio: a Napoli ho svolto le funzioni di giudice per più di vent'anni. Escludendo una breve parentesi a Torre Annunziata e a Ottaviano, all'inizio della carriera, e gli anni trascorsi a Milano, Santa Maria Capua Vetere, Vallo della Lucania e Napoli nord, la mia esperienza è legata prevalentemente a questa città. Ecco perché sono particolarmente contenta di ritornare in quello che considero il mio Tribunale».

Una curiosità: come mai ha deciso di diventare magistrato?
«È la vita che a volte sceglie per noi. Studiare mi piaceva fin dai banchi di scuola, sono sempre stata brava, anche se rivendico di non aver mai fatto parte della categoria dei secchioni. Fui indecisa tra Medicina e Giurisprudenza, alla fine scelsi la seconda, anche per assecondare i miei genitori, che pensavano mi avrebbe dato maggiori opportunità».

Poi però è andata dritta al concorso in magistratura.
«La verità? Fu il primo che bandirono, dopo che mi fui laureata. Col senno di poi, ringrazio il caso che mi ha portato verso una professione che ho amato subito».

Veniamo ai processi di casa nostra. 
«Mi sono occupata dei casi più vari, ma anche di quelli che hanno profondamente segnato la storia giudiziaria della città e della regione».

Quale ricorda?
«Metà anni Ottanta, a Lauro rapirono un ragazzino di 16 anni, figlio di genitori anziani e benestanti. I rapitori erano amici di famiglia, lo tennero in ostaggio sulle montagne dell'Avellinese, poi lo uccisero. Ricordo ogni dettaglio di quella storia, mi colpì molto anche dal punto di vista umano».

Come andò a finire?
«Arrestammo i responsabili in flagrante, mentre da una cabina telefonica parlavano con i genitori della vittima; li individuammo mettendo fuori servizio le cabine della zona tranne una. Ergastolo per tutti, pena confermata in Cassazione, io fui estensore della sentenza». 

Dai rapimenti ai processi di camorra.
«In quegli anni avevo la tutela di terzo livello, l'auto blindata per intenderci; indagavo sui Casalesi, il boss Setola, e poi Raffaele Schiavone, i Giuliano... Il pentimento di Luigi, ad esempio: ero presidente del collegio, ricordo ancora la sentenza definitiva per 416 bis - associazione mafiosa - nei confronti dei Mallardo».

Quante condanne all'ergastolo ha pronunciato?
«Molte. E benché non abbia mai avuto alcun dubbio, ogni volta che leggo quei dispositivi la voce mi trema. Quando decidi della libertà di una persona, rimanere freddi e distaccati non è possibile. Almeno, non lo è per me».
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