La prima volta di Francesco Di Leva:
«Una vita da panettiere,
poi la recita per gioco»

La prima volta di Francesco Di Leva: «Una vita da panettiere, poi la recita per gioco»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 3 Aprile 2020, 18:00
5 Minuti di Lettura
«Sono nato a San Giovanni a Teduccio, papà camionista e mamma casalinga, faccio l'attore ma nel cuore resto panettiere: l'immagine che tengo di me è coi piedi int' 'a farina. Quello è sempre stato il mio lavoro, impastare e sfornare; fino a poco fa non lo riuscivo manco a dire, che per campare recitavo». Francesco Di Leva - Il sindaco del Rione Sanità, Antonio Barracano, l'uomo d'onore che gestisce la vita del quartiere, il boss che amministra la propria giustizia e vive onorato e temuto - la prima volta che è salito sul palcoscenico aveva solo 13 anni.

Giovanissimo.
«Frequentavo la scuola media, ma ero proprio 'nu scugnizzo, un teppistiello, non tenevo genio di fare niente. Arrivò Ciro Zinno, faceva il maestro di strada, e organizzò una commedia per noi ragazzi - ci voleva fare interpretare Vincenzo De Pretore».

Così, andasti in scena.
«No. Le maestre mi tenevano in disparte: facevo chiasso, mi appiccavo con tutti... insomma, secondo loro ero un elemento di disturbo, e avevano deciso che non dovevo fare niente, altrimenti avrei rovinato pure il lavoro degli altri».

Tu invece volevi recitare?
«Non è che ci tenessi tanto. Anzi, per la verità non ci pensavo proprio, mi piaceva fa' burdello. Poi però è arrivato Zinno e, invece di mettermi da parte, mi disse Se mi prometti che non mi fai fare una brutta figura, ti faccio recitare una poesia che mi piaceva assai quando ero bambino».

Ti mise alla prova.
«Ci sapeva fare, aveva capito che il mio atteggiamento da teppista era solo un modo per attirare l'attenzione. Volevo essere protagonista e lui mi diede la possibilità di farlo».

E la poesia?
«Versi meravigliosi. Era la storia di un cieco che fa un brindisi a Dio: Scusate se non parlo italiano, ma io nun veco a nisciuno, so' cecato e poi gli chiede pietà. Ricordo che andai in scena fingendo di alzare un calice, dissi tutto quello che dovevo dire e poi abbassai lo sguardo. Il pubblico in sala scoppiò a piangere, mia madre singhiozzava, io pensai di essere andato malissimo. Dissi Ecco qua, agge fatte 'n'atu guaio».

Invece, fu un successo.
«Piangevano perché si erano commossi, cose 'e pazzi. E io che invece ero convinto che a teatro si dovesse ridere e, se non ti divertivi, voleva dire che lo spettacolo era una schifezza».

Insomma, lasciasti tutti a bocca aperta.
«Non solo. Perché quella fu la prima volta in cui mi resi conto che recitare non era niente male».

Ti piaceva andare in scena, ma avevi anche del talento.
«Quello lo aveva capito meglio il maestro Zinno che, con Pasquale Valentino, chiamò mio padre e gli chiese se potevo cominciare a frequentare una compagnia teatrale a San Giorgio a Cremano. Papà rispose che poteva pure andare bene, ma nessuno mi avrebbe mai accompagnato. A casa mia bisognava faticare e il tempo per andare sopra e sotto non ci stava».

Niente compagnia teatrale, dunque?
«Ci tenevano talmente, Zinno e Pasquale, che si offrirono di pensarci loro, i miei genitori non avrebbero dovuto fare niente. Il problema ero io che non ci volevo andare sempre, vulevo juca' 'o pallone, sta' 'mmiez 'a via. E però loro insistevano, mi venivano a prendere fino a casa. La stessa cosa che adesso faccio io con i ragazzini del quartiere che secondo me ce la possono fare». 

Intanto, continuavi a andare a scuola?
«No, non ci andavo più. Lavoravo nel panificio di mio nonno, dalle otto di sera alle sette del mattino. E poi, di giorno, quando ce la facevo, andavo a recitare».

Il giorno del debutto lo ricordi?
«Come se fosse ieri. Al teatro Pierrot di Ponticelli: la Festa di Piedigrotta di Raffaele Viviani. Più che l'esperienza artistica, ricordo quella umana: eravamo un gruppo molto affiatato, così cominciai a frequentare la compagnia più volentieri».

Quando hai cominciato a fare sul serio?
«Devo ringraziare mia madre. Mi segnalò un annuncio sul Mattino: si facevano i provini per Un nuovo giorno con la regia di Aurelio Grimaldi. Mi presentai e venni scelto. E, grazie a quel provino, mi presero anche per partecipare a un corso gratuito di recitazione a Castellammare di Stabia: durava tre anni, non ho mai fatto un'assenza, nonostante continuassi a lavorare in panetteria. Fu un'esperienza fantastica».

La svolta?
«Sempre grazie a un annuncio. Stavolta su Repubblica: Mario Martone organizzava uno stage nella villa di Luchino Visconti sull'isola d'Ischia. Quindici posti per centinaia di giovani attori».

Tu fosti tra i quindici?
«Incredibile ma vero. Ricordo che mi servivano 24mila lire per l'iscrizione, ma chi le teneva? Così, me le diede mio nonno. Altrimenti, non sarei manco potuto partire». 

Da lì, comincia l'avventura con Mario Martone.
«Un maestro e un amico. Con lui, anche la mia prima esperienza a teatro: L'opera segreta in cui, ideatore e regista, raccontava Napoli. Uno spettacolo straordinario, su testi di Enzo Moscato. Poi, un po' alla volta, le cose sono arrivate da sole».

Come Una vita tranquilla, con Toni Servillo e Marco D'Amore?
«Marco e io eravamo alle nostre prime esperienze, un bel thriller e un periodo indimenticabile. Martone fu mitico anche quella volta».

Perché?
«La proposta di Claudio Cupellini, per un ruolo nel suo film, mi arrivò mentre stavo lavorando proprio con Martone. Gli dissi Mario, che faccio?. E lui: Non ti preoccupare, stai con me ancora un giorno: chiudo il tuo personaggio e vai».

E il sindaco, quello del rione Sanità?
«Adoro il mio Barracano, anche se è un poco particolare: è simile ai guappi che deve tenere a freno, ma ha avuto il coraggio di cambiare e diventare il difensore dei più deboli». 
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