La prima volta di Lucariello: «Io baby rapper prodigio, il primo pezzo a otto anni»

La prima volta di Lucariello: «Io baby rapper prodigio, il primo pezzo a otto anni»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 10 Aprile 2020, 18:01
5 Minuti di Lettura
Il primo pezzo rap, Luca Caiazzo - Lucariello, quello di Nuje vulimme 'na speranza - lo scrisse quando aveva solo otto anni. Più che di una canzone, si trattava di una filastrocca rappata, dal titolo piuttosto originale: M'agge magnate 'nu scarrafone. E ogni volta che cominciava a cantarla - accompagnata dai gesti tipici del genere, tra cui le corna a tre dita con pollice, indice e mignolo alzati - se la rideva tutta la famiglia.

Lucariello, una strofa te la ricordi?
«Certo. M'agge magnate 'nu scarrafone. Era niro comme 'o gravone. Se n'è scise dinte 'o cazone. Che prurito 'stu scarrafone. L'agge mise dinte a 'na buatta addó ce mettevo 'o latte».

Otto anni, già così appassionato?
«Anche prima, per la verità. Quando Tullio De Piscopo uscì con Stop Bajon, mi pare fosse il 1984, impazzii letteralmente. Non cantavo altro».

Uè, oh, lievete 'a sotto. Questa qui?
«Si nun te staje accorto quaccheduno te ciacca. 'A ggente ca te guarda nun se ne fotte 'e niente. E allora uè, oh, lievete 'a sotto: un ritmo straordinario. Forse, è stato quello il momento in cui ho deciso davvero che il mio futuro sarebbe stato nella musica. Peraltro, una passione di famiglia». 

A chi ti riferisci?
«A mio padre, faceva il cantautore. Da casa però».

Cosa vuol dire?
«Scriveva canzoni, ma poi le lasciava nel cassetto. Sono cresciuto ascoltando musica, vivevamo tra dischi, chitarre, batteria, tastiere. E infatti a 12 anni già facevo il dj alle feste degli amici, mi divertivo assai».

Scuola e sonorità.
«E anche qualche lavoretto, per mettere insieme un po' di soldi. Tra le varie attività, consegnavo pure le spese a domicilio. Mi ricordo che un cliente con cui avevo fatto amicizia mi regalò un disco di James Brown: Sex Machine».

Uno dei cento finito nell'elenco dei migliori di tutti i tempi.
«A pieno titolo, direi. Era un album dal vivo. E chi se lo scorda: funk, soul, rhythm and blues... davanti a me si aprì un mondo che avevo solo voglia di scoprire».

Andiamo con ordine: la prima canzone rap? Dopo M'agge magnate 'nu scarrafone, ovviamente.
«Il titolo parla da solo: 167 - una demo che cantai per la prima volta a Officina 99, durante una festa del primo maggio. Ricordo che vendemmo tutti i dischi che avevamo. Era dedicata a Scampia, un quartiere che conoscevo bene».

Vivevi lì?
«Ci abitava la nonna, la mamma di mio padre, al Lotto B. Da casa sua, si vedevano le Vele che a me, bambino, sembravano bellissime. Io invece vivevo dalle parti di Chiaiano, ma la giornata la passavo quasi sempre da lei, fino a quando non andò via».

Lasciò Scampia?
«Non poteva più vivere lì. Erano gli anni di Gomorra, non la serie però. Il periodo più tosto della guerra tra clan. Ogni volta che andavo a trovarla, dovevo superare veri e propri checkpoint. Alla fine, la nonna scelse di trasferirsi a Bologna, dove aveva dei parenti».

E tu?
«Cominciai a frequentare il centro storico. La mattina andavo a scuola, all'istituto d'arte, e il pomeriggio con alcuni compagni ci divertivamo a fare rap».

Dove?
«Tra piazza del Gesù e San Domenico Maggiore: ci incontravamo vicino ai bidoni della spazzatura. Ci piaceva il freestyle che, nella cultura hip hop, consiste nel rappare in maniera non strutturata rime già scritte, oppure improvvisarne. In quel periodo, cominciammo a cantare Gomorra, prima ancora di Saviano».

A proposito di Saviano, come è nato il rapporto con lui?
«Con una mail che Roberto mi mandò da un'isola dove trascorreva le vacanze, per una volta libero di muoversi senza scorta».

Vi conoscevate?
«Per niente. Io non avevo neanche letto il suo libro».

Cosa ti scrisse?
«Prima si presentò e poi, testuale, aggiunse: Se fossi un rapper, racconterei della mia storia, in cui mi hanno messo il cappotto di legno prima delle botte in petto. Sto ascoltando la tua musica e mi fa compagnia».

Qual è il significato?
«Il cappotto di legno è l'immagine usata nel gergo camorristico per indicare la bara, Roberto la utilizzò invece per descrivere la sensazione di costrizione, e insieme di tragica attesa, che provava».

Così accettasti di scrivere una canzone per lui.
«Sì, ma non avevo intenzione di fare il solito piagnisteo. Anzi, decisi che il protagonista sarebbe stato un killer: alla guida di una moto, andava a cercare la sua vittima».

Che era Saviano.
«Su una fotografia a colori gli occhi di un bravo ragazzo, dicono che sia un buffone, canto a un certo punto, rendendo palese la sovrapposizione di Roberto con la vittima designata».

Ed ecco Il cappotto di legno.
«Scrissi il testo su una base elettronica e lo mandai a Alessio Bertallot - un amico che faceva lo speaker a Radio Deejay. Ci vedemmo a Roma, dove incontrai anche Ezio Bosso».

Grande musicista.
«Esatto. E decidemmo che l'avremmo registrata insieme. Poi, la mandammo a Saviano, a cui piacque subito. Fu un successo enorme, il direttore di MTV mi chiese di girare il videoclip, e Gabriele Salvatores fece la direzione artistica».

Così è nata anche la sigla di Gomorra?
«No, quella è un'altra storia».

Racconta.
«Mi chiamarono in giuria al Premio Comicon. Tra i giurati, c'era anche Stefano Sollima, il regista. Mi raccontò che stava preparando la serie e mi chiese qualche consiglio musicale. Gli dissi che doveva puntare sul rap in napoletano. Mi prese in parola, e alla fine volle anche un pezzo per la sigla finale».

Nuje vulimme 'na speranza.
«Esatto. Chiamai Antonio, Ntò, un amico rapper. Mi presentai a casa sua con tutta l'attrezzatura per registrare e una bottiglia di champagne. Cominciammo a bere e suonare, e finimmo insieme il pezzo e lo champagne».
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