La prima volta di Malzoni:
«In volo verso New York
stregato da quel bisturi»

La prima volta di Malzoni: «In volo verso New York stregato da quel bisturi»
di Maria Chiara Aulisio
Sabato 16 Novembre 2019, 20:00 - Ultimo agg. 17 Novembre, 11:54
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L'ultima conferma, che da una piccola cittadina di provincia è possibile raggiungere una visibilità mondiale, è arrivata mercoledì pomeriggio, intorno alle 18. In quel momento, Mario Malzoni - classe '69, uno dei massimi esperti nel campo della chirurgia laparoscopica e endoscopica - era in sala operatoria, mentre, in collegamento da Vancouver, duemila medici specialisti provenienti da ogni parte del globo aspettavano di assistere in diretta al suo intervento. Lui ad Avellino, poco più di 50mila abitanti e vita di paese, loro in Canada, al Congresso mondiale della società di laparoscopia degli Stati Uniti - uno di quegli appuntamenti in grado di cambiare il volto a tecniche e modalità chirurgiche consolidate. Nove ore di fuso orario, sala operatoria all'avanguardia, telecamere piazzate ovunque, microfoni aperti e grande attesa da parte di tutti.

Un bel po' di occhi addosso.
«Non aspettavano altro. E anche io, per la verità. Il mio è stato uno dei due soli interventi trasmessi durante il congresso: una vetrina enorme e un attestato di stima e fiducia da parte degli americani».

Emozionato?
«Attrezzato, direi. Negli ultimi mesi, con la mia équipe, abbiamo operato in collegamento con Indonesia, Perù, Russia, Brasile, Argentina, Spagna e Ucraina. In media, venticinque teleconferenze all'anno con i maggiori meeting mondiali».

Numeri altissimi. 
«La laparoscopia è una tecnica dei grandi numeri, l'unica strada per imparare sul serio. I convegni attualmente si basano molto sugli interventi in diretta: hanno il costo di una telefonata internazionale e consentono di seguirne le fasi come se si fosse accanto al chirurgo».

Traguardi inimmaginabili.
«Opportunità straordinarie, fino a oggi riservate solo a chi aveva la fortuna di riuscire a affacciarsi in una sala operatoria».

A proposito di sala operatoria, ricorda la sua prima volta?
«Ero giovanissimo. Assistevo a un intervento di cardiochirurgia, durante il quale avrei dovuto guardare da lontano, e invece riuscii anche ad avvicinarmi al tavolo operatorio grazie alla disponibilità del chirurgo. Ma sapevo che non sarebbe stato quello il mio futuro».

Che cosa aveva in mente?
«Ovviamente, immaginavo di lavorare nella clinica Malzoni di Avellino, fondata da mio nonno e portata avanti da mio padre. Dopo la laurea, fu una scelta naturale quella della specializzazione in ginecologia, anche se mi resi conto quasi subito che, ad esempio, l'ostetricia non mi appassionava per niente».

Quindi?
«Continuavo a lavorare con mio padre, grande maestro, accanto a lui ho imparato tanto, ma nel '95 - come spesso accade nella vita - fu un incontro imprevisto a cambiare la mia strada». 

Un uomo o una donna?
«Harry Reich, luminare della ginecologia: il primo al mondo, nel 1989, a togliere un utero con la tecnica laparoscopica. Mi bastò ascoltarlo, per capire che volevo fare esattamente ciò che faceva lui». 

Sulle orme di Harry Reich, dunque.
«Ricordo ancora la prima volta che mi chiese di seguirlo».

Dove?
«Alla Columbia University, a New York. Mi voleva per uno stage, non mi sembrò vero».

Bella esperienza?
«Straordinaria. Dal punto di vista professionale, ma anche umano. Alla fine con Reich diventammo talmente amici che finii ospite a casa sua».

Cosa le lasciò quella prima volta a New York da stagista?
«Che dire, arrivai che sapevo fare solo gli interventi più semplici, e andai via in grado di operare in laparoscopia casi ben più complessi».

Talento e passione, ma anche determinazione.
«Mi piaceva talmente tanto quello che stavo imparando con il professor Reich che, mentre ero ancora lì, organizzai una nuova sala operatoria nella clinica di Avellino».

Addirittura?
«Feci acquistare la strumentazione più all'avanguardia che c'era: al mio ritorno volevo mettermi subito al lavoro. Sapevo che il futuro era nella chirurgia mininvasiva».

Non ha mai pensato di rimanere negli Stati Uniti o di andare a lavorare altrove?
«Negli ultimi dieci anni ho rifiutato diversi incarichi, ospedalieri e universitari. Recentemente, uno proprio a Manhattan».

Lei resta ad Avellino.
«In venticinque anni, ho eseguito 15mila interventi, una media di 1200 all'anno. Senza la clinica Malzoni alle spalle, non sarei mai riuscito a diventare quello che sono».

Gratitudine?
«Mi sembrerebbe ingiusto andare via nel momento in cui si può dare il meglio. E poi, ad Avellino vivo bene. Chi fa un lavoro come il mio, carico di stress e tensione, dopo ore e ore passate in sala operatoria, ha bisogno di ritrovarsi in un contesto di vita sereno e a misura d'uomo. Sono nato qui, e ci sono cresciuto alla grande, ho un ricordo fantastico della mia gioventù. Lo stesso vale per la vita di Mimì e di Alice - i miei figli, appena adolescenti».

Base ad Avellino, poi in giro per il mondo. 
«Sì, è vero. Sono spesso lontano, mi chiamano a fare formazione ovunque, perfino in Unione Sovietica».

Bella soddisfazione. 
«Vado lì a insegnare da quattordici anni. E, lasciatemelo dire, sono pure professore emerito».

A Mosca? Racconti.
«Partecipavo a un congresso, all'università. A un certo punto, mi chiamano sul palco, non riuscivo a capire che cosa volessero, visto che ero già intervenuto. Fino a quando, il rettore prende la parola».

Una sorpresa?
«Mario Malzoni, da oggi, è professore emerito e onorario presso questa Università di Mosca. No, non potevo crederci».

Da Avellino verso il resto del mondo.
«Andata e ritorno, però».
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