Paola Severino: «La mia Napoli, l'infanzia tra i vicoli sognando la legalità»

Paola Severino: «La mia Napoli, l'infanzia tra i vicoli sognando la legalità»
di Maria Chiara Aulisio
Venerdì 1 Ottobre 2021, 16:00 - Ultimo agg. 20:20
5 Minuti di Lettura

Quel panaro che saliva e scendeva dal balcone della casa dei nonni ai Ventaglieri è uno dei primi ricordi che le torna in mente, quando le si chiede di parlare di Napoli. Un cestello intrecciato di vimini, legato a un doppio filo di spago, che il fruttivendolo del quartiere riempiva di gelsi dolcissimi e irresistibili.

È andata via da questa città che aveva solo 14 anni, Paola Severino - professore di Diritto penale, avvocato, ministro della Giustizia del governo Monti, vicepresidente dell'università Luiss Guido Carli, dopo esserne stata rettore. Nel corso della sua attività forense ha difeso - e difende - i più grandi protagonisti della storia economica e politica di questo Paese. E nel periodo in cui ha diretto il dicastero della Giustizia, è stata tra l'altro promotrice di quella legge anticorruzione - che prevede la sospensione di amministratori pubblici e parlamentari, se condannati - riconosciuta da molti governi come esempio di eccellenza giuridica.

Era dunque un'adolescente, Paola Severino, quando si trasferì a Roma insieme con la famiglia, per seguire il papà, che aveva deciso di abbandonare la magistratura per diventare avvocato: da un lato, la tristezza di andare via da una città che mai avrebbe voluto lasciare; dall'altro, in cuor suo, la consapevolezza che quel legame sarebbe rimasto indissolubile.

Video

E così è andata.
«Certo.

Anche da ministro, tornare a Napoli è stata la prima cosa che ho fatto».

Tornare dove?
«Alla Pignasecca, in particolare; e poi in tutte quelle zone che lottavano e si conquistavano faticosamente la legalità. Ricordo ancora l'accoglienza straordinaria di quel giorno».

Un ministro napoletano andava salutato come si deve.
«Mi conoscevano tutti, incredibile. E tutti mi esprimevano un profondo senso di gratitudine - dovuto al fatto che, grazie al mio ruolo, veniva finalmente rappresentata l'immagine di una Napoli legale».

Marzo 2013, erano i giorni in cui quel quartiere si ribellò al pizzo: i commercianti decisero di non pagare più tangenti alla camorra.
«Gesto straordinario. Entrai in tutti i negozi che esponevano il cartello No pizzo, li esortai a non mollare e dissi loro che mai avrebbero dovuto sentirsi soli. Sapete che cosa mi risposero? Minì, non vi preoccupate: ci difendiamo uno con l'altro. Insieme, contro la camorra, siamo una forza».

Solidarietà tutta partenopea.
«Solidarietà, sicuramente. E dignità, aggiungo. In quell'occasione ricordo con chiarezza che pensai questo popolo può farcela, deve farcela. E giurai a me stessa che Napoli, nella mia vita, sarebbe sempre stata una priorità».

Anche da ministro infatti venne più volte.
«Sì, e c'è un'altra visita che non posso dimenticare».

Quale?
«Quella al carcere di Poggioreale. Lì mi accorsi fino in fondo della sofferenza dei detenuti e della loro voglia di redimersi. Procedemmo lungo i corridoi, e nei cortili - e c'era chi applaudiva, chi batteva sulle sbarre delle celle, chi scandiva mi-ni-stro, mi-ni-stro, mi-ni-stro a gran voce».

Un'accoglienza imprevista.
«Mi sorprese. Tanto che chiesi a un detenuto quali fossero le ragioni di tutto quel clamore. La sua risposta mi commosse: Vuje vulite bene a nuje, e nuje vulimme bene a vuje».

A cosa faceva riferimento?
«Al gran lavoro realizzato nelle carceri: da ministro ne ho visitate decine, mettendo a fuoco problemi e cercando soluzioni. E quello era il loro modo di ringraziarmi».

Parlando di detenzione, al festival di Venezia è stato appena presentato Rebibbia lockdown: come le è venuta l'idea di un docufilm?
«Venni invitata dall'Università di Santa Maria Capua Vetere a tenere una lezione sulla legalità. Naturalmente accettai, ma ero un po' scettica sull'interesse che i ragazzi avrebbero prestato a questo tema. Invece mi smentirono i fatti: l'aula magna si riempì, molti rimasero in piedi e alla fine venni subissata di domande».

Aveva colpito nel segno.
«Capii che i giovani hanno molta voglia di sentir parlare di legalità, ancor più in contesti difficili. Così decisi di introdurre alla Luiss un progetto in cui i nostri studenti ne fossero ambasciatori - nelle scuole a rischio, nelle carceri. Poi ci ha pensato il lockdown a tessere il filo rosso che ha legato le nostre e le loro vite».

Giovani che parlano ai giovani.
«Il modo migliore per far passare i messaggi giusti. E gli studenti della Luiss si sono appassionati così tanto a questa missione, che oggi sono in 150. L'idea del docufilm è venuta a loro, a me quella di istituire borse di studio per l'università. Ci ho pensato quando uno studente napoletano, che non avrebbe mai potuto pagare la retta, mi disse che il suo sogno era iscriversi alla Luiss».

Napoli, in un modo o nell'altro, torna sempre.
«Insieme con un mare di ricordi indelebili».

Il più antico?
«I Ventaglieri, la casa di famiglia, mio nonno... Non posso dimenticare quando acquistò il frigorifero, forse uno dei primi in città, una novità per tutti. Lo mise a disposizione anche delle donne del rione. Da quel giorno, la nostra cucina si trasformò in un porto di mare. Chi veniva a conservare il burro, chi, più raramente, la carne, chi il formaggio - e a me, bambina, quel via vai metteva tanta allegria».

Cos'altro le viene in mente di quell'epoca?
«Sorrento, avevo 8 anni, d'estate mi mandavano lì in vacanza con le suore di Maria Ausiliatrice. Stavo bene, mi divertivo anche molto, ma c'era un momento in cui invece mi assaliva un'enorme tristezza».

Quando?
«Ogni sera alle 19, mentre il sole piano piano calava e si recitava il Rosario. Guardavo verso Napoli, pensavo ai miei genitori e un groppo di nostalgia mi prendeva fino alle lacrime. Devo dire che ancora oggi, quando dalla mia casa di Capri rivolgo lo sguardo verso la città, vivo la stessa struggente emozione».

© RIPRODUZIONE RISERVATA