Cassini: «Spiavo Maradona a Soccavo, con lui ho rialzato la testa»

Gli esordi e le tribolazioni del comico

Cassini: «Spiavo Maradona a Soccavo, con lui ho rialzato la testa»
di Angelo Carotenuto
Sabato 26 Novembre 2022, 08:39 - Ultimo agg. 12:57
7 Minuti di Lettura

Nei monologhi di Dario Cassini, un giorno sono arrivati due terremoti, il politicamente corretto e un bambino, una paternità da cinquantenne che gli ha dato un occhio in più sul mondo intorno. Le cose accadono e finisci da un'altra parte. Al tavolino di un bar romano a Ponte Milvio, Dario Cassini aspetta la puntata dei ripescaggi a Ballando con le stelle, «che ho fatto per amore del varietà del sabato sera e per sottopormi a giudizio su una cosa che non so fare: ballare».

Cassini, di cosa ride un comico?
«A me fanno ridere gli episodi. È un umorismo sezionato. Posso ridere con battute di colleghi che non mi piacciono, con Woody Allen, con la religione. Sono in una chat che si chiama Diversamente catechisti. Bisogna sostenere dei provini, per essere ammessi. Ci sono superstar che fanno la fila. Mi fa ridere soprattutto mio figlio. Compie 7 anni fra qualche giorno. Ha una proprietà di linguaggio sorprendente. È dichiaratamente un frontman».

Com'è la paternità tardiva?
«Non ne ho un'altra per un paragone. So che mio figlio sta in cima e gli impegni vengono dopo. A 55 anni è un dono. Continuerò a fare le mie scemenze, ma dico più no di prima per godermelo. Comincio a scegliere le compagnie. Sono andato a vivere a Todi lasciando Roma, una città pericolosa, tossica, violenta, costosissima. Mi dispiace solo pensare che il tempo con lui sarà più breve di quello che avrei avuto facendolo a 25 anni».

Che cosa le ha fatto Roma?
«Mi ha bullizzato per anni, da giovane: 174 km d'autostrada mi facevano sentire un immigrato. Per non essere più chiamato Napoli ho dovuto aspettare Maradona. Mamma non voleva che facessi il comico. Per paura di un fallimento. Dovetti trovare la maniera di fare dei soldi. Il sistema più immediato era entrare tra i Carabinieri. Mi feci trasferire a Napoli, presi la patente B per i blindati e ho visto tutti gli allenamenti di Diego a Soccavo. Lui è stato per me un modo di alzare la testa».

Suo figlio sa di avere un padre comico?
«Inizia ad averne la percezione.

La popolarità lo spiazza. Si è un po' rotto le scatole che mi facciano sempre domande su Ballando con le stelle. Credo non gli sia del tutto chiaro il concetto di una performance dal vivo. Gli è familiare Rai Play. Ride delle mie cose quando parlo di bambini, le battute per persone mature gli sfuggono».

Lei da bambino con cosa rideva?
«Le comiche. Stanlio e Ollio, le Simpatiche Canaglie, gli sketch di Enrico Montesano. A 7 anni mi hanno ricoverato d'urgenza per un'appendicite. Mia madre si lamentava che facessi i capricci, stavo per morire di peritonite perché non mi credeva. Mia zia Rosaria si fece carico di raccontarmi in ospedale la puntata di Quantunque io che mi ero perso. Ho riso così nevroticamente che sono saltati i punti».

Con Montesano fa Ballando con le stelle. Che cosa ha pensato del caso della maglietta?
«Qualsiasi cosa venga comunicata in maniera così eclatante, qualsiasi cosa accada televisivamente con un segnale così forte, se viene ignorata, se non se ne accorge nessuno, è preoccupante. La mia domanda è: quanto dobbiamo preoccuparci per la cultura italiana?».

Com'era casa Cassini?
«Mamma è rimasta vedova presto. Al funerale di papà aveva un quarto figlio in pancia. Ha condotto una vita eroica. Ha messo noi davanti a tutto. Ebbe poi una storia con un uomo che piacque a lei e a noi, un giornalista del Mattino, Gianni Infusino. La visita alle rotative è stata la cosa più vicina a Guerre Stellari che io ricordi. Gianni è stato una persona importantissima per noi. Un intellettuale vero».

Com'è cambiato il suo lavoro con il politicamente corretto?
«È come invitare Maradona a una partita e chiedergli cortesemente di non usare il sinistro. È la nuova condizione di noi comici. Ho capito che sono i modi a fare la differenza. Alberto Farina dice cose alle quali stento a credere, ma passa tutto. I miei pezzi invece sono censurati».

Da chi?
«Da chiunque. Storicamente. A Zelig c'era un patto onesto: se vuoi mantenere il pezzo scomodo, paghi una multa di 25 euro per Gino Strada ed esci per ultimo. Una buona condizione. A Colorado capitava di trovare producer che fanno censura preventiva. A Only Fun su La Nove c'è una catena di comando tutta femminile ma ci siamo chiariti subiti: io sui dinosauri di Discovery Channel vi stimo, ma prima di dirmi di no, mi dovete sentire. Se un rilievo arriva da Gino e Michele lo ascolti, se ti accorgi che sono obiezioni ministeriali, ti senti frustrato».

Lei si autocensura?
«Ogni tanto provo a rendermi la vita più facile. Cascano tutti nello stesso trucco. Se vuoi dire una parolaccia, dopo ci metti una bestemmia, così si concentrano su quella ed è possibile che la prima passi. Nessuno può davvero pensare che io creda in quello che dico. Ho scelto la figura dell'essere umano femminile come uno sparring partner. È un pozzo senza fondo, una miniera che cresce con me e mi diverte moltissimo. Non ho mai fatto uno show che non avrei visto da spettatore».

Essere simpatici è una schiavitú?
«Direi che essere popolari è un compito. Ti dai. Anche se non ti va. Non è convenienza: senza l'affetto delle persone, il teatro è vuoto. Far ridere mi piace. Non sono di quelli con la maschera bianca. Da piccolo era un'arma di difesa. Adesso è un mestiere. Sentire che sta arrivando una risata è una sensazione pazzesca. Quando facevo Le Iene mia nipote mi chiese se fosse vero che guadagnavo facendo ridere le persone. È difficile spiegarlo ai bambini».

Non si può essere mai tristi?
«Io sono spessissimo triste, ma non perché sono un comico, lo sono in quel momento, come Dario. Non credo nemmeno che i grandi comici del passato fossero tristi».

Buster Keaton o Charlie Chaplin?
«Chaplin. Forse Keaton era persino superiore nell'uso del corpo, si era dato questa maschera, ma Chaplin aveva una magia anche nella sua storia personale, una vita in cerca di guai. Keaton ha fatto cose grandiose, ma non Il Grande Dittatore né Il Monello. Chaplin scriveva le sue musiche, suonava, correva appresso alla vita e ai debiti».

Suo fratello Riccardo ha venduto un milione di copie con Nutella Nutellae, Marco ha fondato la Minimum Fax. Che libri c'erano in casa sua?
«Cuore, Pinocchio, I Quindici. A un'altra enciclopedia, Vita Meravigliosa, al suo capitolo finale su miti e leggende, devo l'innamoramento per la cultura greca. Riccardo mi ha fatto leggere Bar Sport di Stefano Benni. Era una copia che passava di mano in mano, l'antesignana dello sharing, piena di firme di chi l'aveva toccata. Mancava la copertina».

Da napoletano che ha vissuto a Roma: in cosa sono diversi i due tipi di umorismo?
«Sono entrambi poetici, Napoli è irriverente, Roma è cinica. Io sono diventato le due cose insieme. A Napoli si ride per la persona, per certi versi anche in maniera facile. Di Eduardo ce n'è stato uno, e anche di Troisi. Non esiste niente che gli si avvicini in questo momento. Napoli elegge sempre un idolo, un Masaniello. Uno ogni cinque anni. Ne ho visti passare tanti, ora va Siani, vengono tutti deposti dopo un po'. Anche Roma ha un ventre molle, dentro il quale certe cose facili hanno successo. Ma Roma riempie i teatri con artisti di tutta Italia e tutto il mondo. A Napoli vogliono vedere i napoletani».

È una patologia?
«È un catenaccio calcistico per non rischiare. È difficile penetrare, per chi non è una superstar, se non per una data sola. È una città che batte le mani a Gigi D'Alessio, senza offesa. Io sono nato e cresciuto a Napoli, ma il 90% di quello che esce da Made in Sud non lo capisco».

© RIPRODUZIONE RISERVATA