Gianni Mazza, parlo di me: «Suonare al Veglione è come un rapimento, sei solo con la musica»

Il maestro: litigai con la mia ex moglie perché non le feci gli auguri

Gianni Mazza con Amadeus
Gianni Mazza con Amadeus
di Angelo Carotenuto
Sabato 31 Dicembre 2022, 08:29 - Ultimo agg. 16:20
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Quando stasera saremo al meno dieci, meno nove, meno otto, rivolgete per un istante un pensiero di solidarietà a tutti i musicisti del mondo che stanno passando il Capodanno fingendo di star bene, in compagnia del loro strumento su un palco, in un locale, in televisione, lontani da ogni affetto, terribilmente concentrati a suonare I love you baby per i nostri trenini, il nostro spasso, per qualcosa che abbia il vago aspetto della felicità. I loro stessi sorrisi saranno più aperti del solito, perché questa è la notte in cui non si può sbagliare: la gente deve divertirsi. C'è dentro fino al collo pure Gianni Mazza, il signore della leggerezza, il maestro delle trasmissioni cult di Renzo Arbore, del grande varietà di Rai 1, dei mezzogiorno in famiglia su Rai 2. Eppure, tra il serio e il faceto, chiacchierando al tavolino di un bar di Roma, in partenza per una serata a Sorrento, ammette: «Io arrivo a dire che Capodanno non è una festa. È una maledizione. Bisogna essere allegri per decreto. Non c'è niente di spontaneo».

Lei non si diverte?
«Io quando suono mi diverto sempre, ma questa è una serata diversa dalle altre. La vivo come un oracolo. Da mezzanotte in poi, mi arrivano delle vibrazioni, dei segnali chiari sulla vita che mi toccherà nei mesi successivi. A stare lontano da casa, alla fine ci si abitua. Quando si può, porti con te una persona, ma non si può smettere certo di suonare 10 minuti dopo la mezzanotte per andare a fare un brindisi. Una volta ebbi una discussione con la mia ex moglie che era con me. Mi rimproverò di non averle fatto nemmeno gli auguri. Ma come potevo fermarmi?».

Ai veglioni nascono amori e finiscono quelli dei musicisti?
«Guardi, già prima di quella sera la chiamavo la mia futura ex moglie.

Il fatto è che quando sono al piano, dimentico di tutto. Chi suona, lo sa. Chi non suona, non lo capisce. Finisci in un altro mondo. È come un rapimento. Sei da solo con la musica».

Come l'ha conosciuta, la musica?
«In casa mia c'era un pianoforte verticale, ma era un piano farlocco, aveva una bella targa dorata di una marca tedesca, ma non reggeva l'accordatura, andava mezzo tono sotto. Un giorno mi sono insospettito e con un cacciavite la targa è venuta via. Lo suonavano mia madre e suo fratello, lui le canzonette, lei musica classica. Era sistemato in salotto, addossato su due pareti ad angolo. Io mi rintanavo in quel buco lì dietro e facevo finta di dirigere. Finché mia nonna mi ha obbligato a studiare. Avrò avuto sei o sette anni. Mi portava da una maestra di Santa Cecilia in una casa bellissima, col giardino. Puniva gli errori picchiando con una bacchetta il dito che aveva sbagliato. Parlava molto velocemente, voce alta, salivazione pronunciata. Il concetto arrivava, ma spesso - come dirlo - arrivava umido. È stato un incentivo a studiare più velocemente».

La musica si impara studiandola o facendola?
«Per molte vite diverse. C'è chi impara a leggerla con il tempo, ci sono gli autodidatti, io avrei voluto fare il Conservatorio ma mio padre non ne voleva sapere. Gli pareva una perdita di tempo. Quando provai a entrare da privatista, ero già grande e non mi presero. Ci rimasi male, ce l'ho avuta a morte con lui. Voleva che diventassi geometra. Mi sono diplomato ma non ho mai esercitato».

È stato traumatizzato dall'estimo?
«Non era nemmeno la materia più brutta, anzi. Ha il suo fascino. Ha qualcosa che sa di campagna. Erano i logaritmi, a non andarmi giù. Ancora non ho capito a cosa servissero. Scusi, lei che ne sa dell'estimo?».

La musica non è anche matematica?
«Senz'altro, ma i logaritmi sono numeri senza fondamento, sono filosofia della matematica. Una cosa terribile, perché me la ricorda? Sono rimasto legato a dei compagni di classe. Uno l'ho ritrovato dopo anni perché ha aperto una sala di incisione. Chissà come ci siamo riconosciuti. A scuola o ero assente io o mancava lui, ci siamo incrociati raramente».

C'erano anche canzoni napoletane in casa sua?
«Mio zio suonava Lazzarella, di cui era autore Riccardo Pazzaglia, che poi ho incontrato anni dopo a Quelli della notte. Con le canzoni napoletane si fanno delle sconcezze enormi. Io penso che non andrebbero riarrangiate mai. Non si devono toccare, come la musica di Mozart».

Com'è arrivato nel salotto di Arbore?
«Facevo il mio percorso, Renzo i suoi. Stavo rintanato in sala di incisione dalla mattina alla sera, all'inizio come turnista al pianoforte, poi come arrangiatore. Un giorno mi chiamano per un pezzo jazz all'organo e mi trovo davanti Armando Trovajoli. Suonai sapendo che lui lo avrebbe fatto meglio di me. Lavoravo con Toni Cucchiara a una commedia in teatro. Un anno di tournée, bello, ma pesante. Tutte le sere le stesse cose. A un certo punto entrò in compagnia Anna Melato, la sorella di Mariangela. Con Renzo ci siamo conosciuti così. Ai tempi di Quelli della notte, la sera veniva la gente ad aspettarci fuori dagli studi. Era successo solo per Lascia o Raddoppia».

Se lei apre il piano adesso, cosa suona?
«Non ho un pezzo che preferisco. Vivo di infatuazioni momentanee. In questo momento mi piace l'ultima canzone di Tiziano Ferro. Resto legato alle melodie, i rapper non li capisco, vanno a mille, non mi dicono niente con quel dum dum dum. Un loop di batteria, un accordo solo, al massimo due se il pezzo è più complesso».

Le pare strano nel paese del melodramma?
«Mi fa strano, certo che mi fa strano, e mi dispiace anche. Non è cambiata l'Italia, è cambiato il mondo. I computer, i tablet, il cellulare, la musica sta sulla nuvola. Quando andavo a comprare i dischi, nei negozi c'erano le cabine per ascoltarli prima. You are my destiny è stato il primo che ho comprato. Ero cotto di una ragazza, volevo farglielo sapere in qualche modo. Ma con la musica ci si innamora ancora. È un miracolo che si rinnova. Forse il musicista l'ho fatto per questo».

La globalizzazione però consente ai Måneskin di suonare con i Rolling Stones.
«Un grandissimo colpo di culo. Sono bravi, ma da qui a diventare un giorno all'altro gli idoli del mondo, boh, mi pare strano. Sono esteticamente giusti. Questo è cambiato nella musica. La maniera di proporsi, che spesso vuol dire mascherarsi, anziché svelarsi. La musica in tv fa una vitaccia. Si passano delle ore in sala trucco. Manca un programma come Doc».

Mi dica una canzone che la commuove.
«Certi pezzi classici, certi passaggi armonici, l'accordo di sesta napoletana. Le armonie sono un'arma sudbola. Un do minore con la terza al basso assume una seriosità che stringe il cuore. Oppure l'inciso di Calling You, dalla colonna sonora di Bagdad Cafè».

Il maestro Vessicchio dice che il giro di do è casa. Per lei?
«È una soluzione che non tradisce mai. È una sicurezza. Ti senti protetto. Quando andavo alle scuole medie, in gita scolastica mi portavo sempre dietro la chitarra e il pane è quello, tutta una serie di pezzi americani degli anni Sessanta. Non sapevo nemmeno cosa volessero dire le parole, ma suonavano bene, erano canzoni piene di ottimismo, gli Everly Brothers, Fats Domino, tutto un repertorio così».

Maestro, secondo lei Dio suona?
«Dio non lo so. Gesù mi pare un rockettaro. Non come Damiano dei Måneskin, un tipo alla Shel Shapiro. Raffinato, elegante, anche rompicoglioni. Dio forse potrebbe suonare le campane. Di certo non è un rapper».
 

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