Giorgio Verdelli, parlo di me: «Napoli città della musica, battiamo Liverpool 20-1 e tanti saluti ai Beatles»

L'autore e regista: tanti napoletani stanno a Roma e si danno una mano

Giorgio Verdelli
Giorgio Verdelli
di Angelo Carotenuto
Sabato 11 Marzo 2023, 08:24 - Ultimo agg. 13 Marzo, 18:56
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Nella sala montaggio romana del nuovo documentario su Jannacci, Giorgio Verdelli smuove la brace che vive tra le sue mille idee. Una lava che ogni tanto prende forma, e che alle cose una forma dà. È stato l'inventore degli Shampoo, il gruppo cult che cantava i Beatles in napoletano. Ha musicato Mi manda Picone di Nanni Loy e ha lavorato con Arbore in Quelli della Notte. Ha sperimentato la forma del docufilm quando ancora non si chiamavano così, erano fuori dai radar e potevano contenere delle perle senza fare rumore. A lui si deve il recupero dell'intervista in cui Massimo Troisi rivela di essere stato censurato al festival di Sanremo. «Se dopo ho fatto un documentario su Pino Daniele, lo devo a quel lavoro. Adesso, forse, ce ne sono anche troppi, a sproposito». Il tempo resterà vinse il Nastro d'Argento nel 2018, dopo sono seguiti i film su Paolo Conte, Ezio Bosso e Lucio Battisti.

Che parentela esiste tra suono e immagine?
«Il suono arriva prima, prepara all'immagine, ha una sua forza narrativa autonoma. Era la tesi di quel grandissimo regista di documentari musicali che è stato Donn Alan Pennebaker. È dal suono che provengo, ho fatto il disc-jockey, un'esperienza fondamentale. Una cosa imparata montando i film è che la colonna sonora fa parte della sceneggiatura. Una canzone arriva in un determinato momento, perché ha un senso là e non altrove. Io dico canzone, ma il ragionamento è lo stesso per i suoni».

Che canzoni si sentivano in casa sua?
«Ho avuto un fratello maggiore molto appassionato, già alle scuole elementari ascoltavo il beat, tipo Sound of Silence di Simon e Garfunkel, ma anche la versione italiana dei Dik Dik: La tua immagine. Credo di avere ancora il 45 giri. E poi tutta la stagione dei Procol Harum, Equipe 84, Nomadi, i Corvi. I Beatles li ho scoperti tardi, dopo aver visto Help al cinema. All'inizio pensavo fossero leggeri e commerciali. Intendo quelli di She loves you. La folgorazione arrivò quando mio fratello portò a casa Revolver».

E oggi cosa pensa della definizione di musica commerciale?
«È stato un atteggiamento degli Anni 70, faccio mea culpa, era la stagione del prog, Se un pezzo non aveva un assolo di flauto di 7 minuti, si poteva snobbare.

C'erano molte cose belle, altre anche mostruose. Napoli aveva una scena vivacissima, penso alle Aquili Reali citate anche nel libro di Alessandro Daniele, il figlio di Pino; ai Moby Dick di Sandro Coppola e Toni Di Mauro, un chitarrista sopraffino; agli Osanna, i primi a mescolare il dialetto con il rock; al Balletto di Bronzo. Così tra noi girava una domanda: voi che fate, night o attrazione? Siete underground? Era il trionfo della colpevolizzazione del giro di do. Le cose semplici si ascoltavano di nascosto. La dedica di un mio libro è al mi bemolle. Quando ho conosciuto Paolo Conte, mi ha fatto notare che è la tonalità di tutti i grandi pezzi del blues e del jazz».

Dove comprava i dischi a Napoli?
«Do Re Mi, un negozio gestito da un ex chitarrista in piazza San Vitale - io sono di Fuorigrotta. Ci venivano pure Zurzolo della Loggetta e Peppe Vessicchio da Cavalleggeri. Il primo Lp è stato Nashville Skyline di Bob Dylan. I 45 giri li prendevo ai Magazzini Esposito, perché te li facevano ascoltare prima. A mia madre piaceva Massachusetts dei Bee Gees».

Com'era casa Verdelli?
«Piena di libri. Mio padre, toscano, di Arezzo, ci teneva che leggessi. Era stato prigioniero di guerra in Africa, non si era potuto laureare, aveva fatto la scuola professionale prima dell'Accademia aeronautica a Caserta: sottufficiale pilota. Se doveva fare un regalo, il regalo era un libro. Mia sorella si chiama Griselda, dalla novella di Boccaccio. Mi sono formato sulle Vite parallele di Plutarco. Con Pino Daniele facevamo gare a chi ricordava le formazioni dei gruppi, Plutarco lo ricordo finanche meglio. Mi piacerebbe fare qualcosa su Lucullo, vittima di un errore storico. Lo rappresentiamo come un gaudente, invece è stato il generale romano che ha sconfitto in battaglia più nemici in condizioni sfavorevoli. Un aristocratico che non seppe farsi amare, indifferente alla popolarità, un coraggioso stratega, libero rispetto a Cesare e Pompeo. È questa passione per il lato meno esplorato dei personaggi che metto nel lavoro. Pennebaker sostiene che un documentario si regge sul segreto equilibrio tra quello che tutti sanno e quello che non si conosce».

Cos'è che non si conosce del suono di Napoli?
«Non credo che esista una risposta definitiva sul suono di Napoli. È la città più musicale d'Italia, una delle prime due-tre al mondo, con New Orleans e Memphis. Napoli batte Liverpool 20 a 1, con tutto il rispetto per i Beatles. Ha una tale fioritura di geni che non è circoscrivibile a un solo stile. Incontri l'alto e il basso, il medio, il laterale, il popolare, il colto, il coltissimo della scuola pianistica. Riccardo Muti si è formato a Napoli. C'è molto altro rispetto a quel suono urbano e forzato di cui si abusa, tra il pop e il neomelodico, in questo accumulo di film e fiction post Gomorra. Per un'indagine sul suono di Napoli, servirebbero 8 puntate. In questo momento, poi, c'è un'abbondanza di giovani autori straordinari. Alcuni sono la prosecuzione di un percorso classico, altri innovano. I Nu Genea sono un gruppo internazionale. Il napoletano è uno standard. Penso anche al cinema. C'è come una scuola artistica, inconsapevole. Un campionario di emozioni. Si può essere napoletani anche senza vivere a Napoli».

"A restare ci vuole coraggio" cantavano Le Strisce qualche anno fa. È così?
«Direi che ci vogliono le opportunità. Questa città è un epicentro, un continente a parte che meriterebbe l'attenzione dalle istituzioni. Senza assistenzialismo e lobby, servirebbe qualcosa di stabile, non so cosa. Io sono andato via per lavorare a Rai1 con Brando Giordani, dopo con Ravera. Imprenditori capaci esistono, a Napoli mancano le strutture industriali. La tv e il cinema si fanno a Roma, le case discografiche e le piattaforme stanno a Milano. Forse sarebbe necessario un decentramento, Napoli resta una grande capitale. Tanti napoletani sono a Roma, e si danno una mano. Più che a Napoli».

Che cosa sente oggi, quando cerca un bel suono?
«Van Morrison, il mio artista preferito in assoluto. La sua voce mi commuove, come mi commuovono John Lennon, la voce di Vasco Rossi quando fa Sally, il sax di John Coltrane. Il bel suono è quello che affascina. Ognuno di noi ha un misterioso libretto personale delle istruzioni».

Verdelli, mi dica una canzone inconfessabile che le piace.
«Cicale di Heather Parisi. Il pezzo è ai limiti del trash, ma un giorno ho scoperto che l'arrangiamento era di Fio Zanotti, allora ho capito perché mi diceva qualcosa. Torniamo al punto di prima, ai frammenti di qualità da scovare. Ho vissuto per anni nell'esterofilia completa. Le cose italiane non le ascoltavo nemmeno, tranne Vasco, Bennato, De Gregori, Pino, qualche gruppo. Mi sono riappropriato della musica leggera per necessità, lavorando in televisione. Ho scoperto cose del passato. Uno che mi piace moltissimo è Bobby Solo. È un cantante straordinario e fa Johnny Cash benissimo. Tempo fa proposi in Rai un viaggio in America con lui, alle radici del rock and roll. Lo conosce meglio di tutti. Cambiò il direttore e il progetto saltò. Anche i Queen dovevamo fare, prima che uscisse Bohemian Rhapsody. Purtroppo resiste l'idea che le cose vadano fatte a rimorchio di qualche successo. Manca il coraggio di farle per primi».

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