Napoli, il terremoto «freddo» che fece scoprire la città fragile

Napoli, il terremoto «freddo» che fece scoprire la città fragile
di Pietro Gargano
Sabato 14 Novembre 2020, 23:00
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Alle ore 19.34 del 23 novembre 1980 Maurizio Valenzi, il primo sindaco rosso di Napoli, era al Teatro San Carlo. Dopo i novanta angosciosi secondi del ballo della terra s'avviò a passi lunghi verso Palazzo San Giacomo. Mancavano notizie sicure, si intuiva solamente che il colpo era stato micidiale. Valenzi ordinò di accendere tutte le luci del municipio, affinché i napoletani avessero un faro. Quel chiarore attirò la fiumana di gente che lasciava i Quartieri Spagnoli cercando sicurezza nella vastità della piazza del Plebiscito, isolata da possibili crolli. Valenzi venne poi nominato commissario straordinario per il terremoto. 

La grande spallata aveva colpito soprattutto le zone interne, l'«osso» studiato da Manlio Rossi Doria. A Napoli la scossa fece crollare un solo palazzo. La città, comunque, era il baricentro sociale del disastro. Andrea Geremicca, stratega napoletano, lo definì un «terremoto freddo». Quando furono effettuate le prime opere di verifica si scoprì che Napoli si reggeva secondo la «statica di San Gennaro», qualcosa che ricordava il miracolo. Case vecchie poggiavano su case ancora più antiche, a loro volta in prodigioso equilibrio su caverne di tufo. Il bilancio fu di 35.000 edifici danneggiati e 5.531 pericolanti, 150 mila sfrattati, il quartiere Mercato-Pendino svuotato dal 67,3 % dei residenti.

Questi dati, tuttavia, erano la somma dei terremoti senza scosse continui nei secoli.

Eppure l'unico edificio crollato in città aveva appena ventott'anni di vita. Si era sfarinato al numero 86 di via Stadera a Poggioreale. Nove piani giù, come briciole. I morti furono cinquantatré. Si provò che il palazzone era stato costruito con cemento di qualità scadente, con trucioli di legno e carta nei muri, munnezza nelle travature. Il basamento che sorreggeva l'intero grattacielo era profondo solo cinque metri.

Le vittime avrebbero dovuto essere molte di più. Quel giorno c'era un battesimo nel palazzo, i tanti invitati furono ospitati dal parroco in una sala della sacrestia. Si salvarono per puro caso. Il processo cominciò cinque anni dopo e durò un decennio. Le condanne arrivarono, ma nessuno andò in galera. Alcuni imputati morirono prima della sentenza, altri ebbero gli arresti domiciliari. 

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Il sindaco-commissario Valenzi nulla tentò di sottrarre alle zone disastrate dal sisma a vantaggio di Napoli ma si batté affinché fossero finalmente risarciti gli strappi al tessuto sociale e civile della città. «Nella capitale dei senzatetto, dove un esercito di persone non ha casa e non si sa dove ospitarle - scrisse Il Mattino - il sindaco, che è al governo con un margine risicato che necessitò del consenso della Dc, ha problemi enormi. Prima del terremoto i senzatetto erano diecimila, oggi sono 30, 40, forse 50mila».

Una legge ad hoc, fulmineamente approvata, dichiarava di «preminente interesse nazionale» la creazione a Napoli di ventimila alloggi con relative opere di urbanizzazione. Tutti i poteri erano affidati al sindaco, soggetto soltanto alla Costituzione e ai principi generali delle leggi. I tempi previsti erano frenetici. Ad alimentare il disagio si formò una torbida alleanza fra camorra e brigate rosse. Famelici speculatori speravano di riproporre progetti bloccati negli ultimi anni. Furono scagliate palate di fango anche contro i giusti. Si registrarono, è vero, errori e omissioni. Ma anche fatti positivi. Quarant'anni dopo bisogna valutare e indicare non solo le ombre - e le penombre - di quel periodo, ma pure le luci.

La ricostruzione non stravolse la disciplina urbanistica, utilizzò invece il recente «piano delle periferie». Si provò a risanare le periferie degradate: San Giovanni, Barra, Ponticelli, San Pietro a Patierno, Secondigliano Pianura. Servizi per cento ettari, fra cui tre parchi pubblici, punteggiarono San Giovanni, Ponticelli, Scampia, mentre si mettevano stampelle ai palazzi e si ancoravano due navi della Tirrenia con seicento senzatetto. Altri cento erano negli alberghi. Non bastò. Molti occuparono scuole, mercati, campi sportivi, bus, stazioni della Vesuviana, addirittura treni fermi sui binari. C'erano famiglie sloggiate dalla scossa o dal bradisismo nei Campi Flegrei, ma pure senzacasa storici. E presto partì l'occupazione abusiva di case private, la prima alla Riviera di Chiaia, posto-bene. Poi toccò ai nuovi alloggi popolari di Secondigliano. Un caos.

Si moltiplicarono le pressioni degli approfittatori. Geremicca rievocò con fierezza la resistenza al pensiero dominante: da una catastrofe può nascere «una nuova Napoli». In sostanza si chiedeva di adoperare il piccone nel centro storico, così come un secolo prima nel fallimentare Risanamento dopo il colera, per la felicità dei signori del cemento. Un terremoto è una tragedia, mai un'opportunità, e si intervenne senza demolire. Neppure un edificio fu abbattuto. Si registrarono volontariato e solidarietà. Non venne stravolta l'identità e restò integra la memoria, rendendo possibile il successivo intervento dell'Unesco. 

 

Inoltre va meditata la collaborazione tra le istituzioni del Paese e l'impegno dei partiti, da sinistra a destra. La lezione dovrebbe servire a Matteo Salvini e a quanti altri, nel colmo dell'epidemia del covid 19, demonizzano gli avversari politici, visti come nemici da buttare giù.

Indicativo di quel clima è il fatto che Giuseppe Zamberletti, pioniere della moderna Protezione Civile, abbia assegnato nel 2012 un premio alla memoria a Maurizio Valenzi, ad Andrea Geremicca e al repubblicano Francesco Compagna, i protagonisti della ricostruzione dopo il 1980.

Di quei giorni di dolore e di rabbia deve restare pure la scelta della cultura come destino. Pochi mesi dopo il terremoto Valenzi chiese aiuto a Eduardo De Filippo per il rilancio di Estate a Napoli, aperta poi da «Pulcinella ca va cercando a furtuna soia pe' Napule», con la regia di Eduardo. La strada resta quella. Non debbono invece restare i ponteggi del dopoterremoto, i tubi Innocenti di un tempo senza innocenti. Sono ancora lì, però è difficile distinguerli dai precedenti e da successivi alla scossa, com'era difficile orientarsi tra i senzatetto di varie epoche. Quelle ragnatele di sostegni a muri barcollanti sono una triste memoria da cancellare.

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