Terremoto 1980, l'ultimo treno dei fondi per la ricostruzione

Terremoto 1980, l'ultimo treno dei fondi per la ricostruzione
di Generoso Picone
Lunedì 23 Novembre 2020, 12:00 - Ultimo agg. 24 Novembre, 07:11
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A metterli in fila, 65 miliardi di euro compongono una striscia tendente all'infinito che poi a un certo punto, con una torsione degna del nastro di Moebius, si avvolge su se stessa. La contabilità di una catastrofe come quella del 23 novembre 80 merita di essere fissata in una immagine di visionarietà labirintica e rendere così l'idea assai più prosaica e molto meno artisticamente metafisica di una storia che non riesce a trovare la sua conclusione e si protrae su se stessa, aggrovigliandosi nell'intrico. 

È la cifra del terremoto che non finisce mai, che anche 40 anni dopo va a formare un ingombrante capitolo di spesa. Giusto un anno fa, gli uffici della Regione Campania avevano annunciato in una nota che il comitato «per la semplificazione e la velocizzazione delle procedure burocratiche» proprio così: semplificazione e velocizzazione, a 468 mesi di distanza in 4 anni di lavoro era arrivato a una conclusione individuando nella cifra di 130 milioni il fabbisogno per l'intera regione e specificamente di 56 per l'Irpinia, riferendosi a opere approvate e previste ma mai partite. L'organismo impegnava allora 92 milioni di cui 67 a disposizione di chi ne aveva fatto richiesta, Comuni e privati. Rimanevano da recuperare ancora 40 milioni di euro, fidando nel quarantennale per chiudere la pratica. Oggi la ricostruzione materiale è compiuta al 94%, manca quel 6 per metterla in archivio.

Evidentemente a causa degli effetti sconvolgenti dovuti alla pandemia da Covid-19, ciò non è successo. Se ne riparlerà nel 2021. Per altro nel 2006 ci fu uno stanziamento di 157 milioni e mezzo di euro che si sarebbero dovuti utilizzare entro l'anno prossimo, scavallando il quarantesimo anniversario e precipitando direttamente nell'indefinito. In Moebius, insomma.

Paradossale ai limiti dell'assurdo, tornando al marchio dei 65 miliardi che l'Irpinia si porta impressa sulle ferite della sua tragedia. Imbarazzante e grave, se si pensa che in molti casi i fondi servirebbero ad adeguare i contributi a ditte che hanno già realizzato i lavori e che aspettano di poter riscuotere somme parzialmente o interamente anticipate: da loro o dalla committenza dei privati. Ha ragione Rodolfo Salzarulo, ex sindaco di Lioni, per un periodo coordinatore degli amministratori dei centri del terremoto, a dirsi convinto che soltanto una legge di 5-6 articoli potrebbe scrivere la parola fine: «Se non la smettiamo, resteremo sempre mentalmente terremotati, un macigno assai pesante per poter ripartire». 

 

Gli ultimi milioni di euro costituiranno l'estremo rateo, l'approdo di un impressionante elenco di interventi normativi in un'area che si è ampliata a dismisura seguendo il canone dell'economia della catastrofe: dai 36 Comuni iniziali a due intere regioni Campania e Basilicata e il peso preponderante di Napoli e della sua fascia metropolitana, un pezzo della Puglia, 687 centri che poi scenderanno a 684 con l'etichetta di terremotati, un dispendioso e a volte incontrollato programma di opere pubbliche per distribuire i troppi poli industriali su un territorio spesso impervio. Qualche tempo fa l'Ufficio studi della Camera contò 33 tra decreti, leggi, mini-leggi, emendamenti e proroghe: dai primi provvedimenti d'urgenza, dalle ordinanze emanate dall'allora commissario straordinario Giuseppe Zamberletti, come la legge 874 del 22 dicembre 1980, alla 219 del 14 maggio 1981 che regolava modalità e termini del piano di ricostruzione e sviluppo con una copertura finanziaria di 8mila miliardi di vecchie lire.

Da allora, ogni manovra ha visto un capitolo dedicato al terremoto d'Irpinia: da un punto in poi soltanto l'indicazione per titolo, senza però un seguito sostanziale, quasi un atto dovuto che alla prima occasione sarebbe stato cancellato, posposto, dimenticato. Che cosa sia successo lo spiegarono nel 2014 i sindaci della parte irpina del cosiddetto cratere, che divisero in tre sezioni il flusso reale delle assegnazioni. In quella scansione si legge un pezzo significativo della Storia d'Italia di questi decenni: il 90 per cento delle risorse è stato assegnato dal 1981 al 1991, l'8 per cento dal 1992 al 2001, il 2 per cento dal 2002. A cavallo del decennale la tela disordinata si sfila generando un insopportabile stillicidio di annunci e revoche, come se fosse intervenuta una cattiva coscienza a ripulire l'anima dagli stanziamenti del passato.

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Il corto circuito ha una data. Il 7 aprile 1989 con un'altra legge, la 128 venne istituita la commissione d'inchiesta parlamentare sull'attuazione degli interventi per ricostruzione e sviluppo e l'organismo presieduto da Oscar Luigi Scalfaro 20 deputati e altrettanti senatori, stessi poteri della Magistratura ordinaria avrebbe concluso il suo compito il 5 febbraio 1991 con una relazione di 1125 pagine, consegnata pochi giorni prima al Parlamento. L'atto di nascita dell'Irpiniagate, della Terremotopoli parallela alla milanese Mani pulite, che uso strumentale a parte come poi si sarebbe affermato segnalava distorsioni importanti. Per esempio la Corte dei Conti sottolineò con chiarezza che la pluralità di norme «oltre a incidere negativamente sulla certezza del diritto, ha determinato ritardi, confusioni, anomalie procedurali, difficoltà dei controlli e in diversi casi ha consentito irregolarità ed abusi» e alcuni costi erano lievitati fino a 27 volte, con il 48,52 per cento dei progetti finanzianti non ultimato, con varie irregolarità negli interventi delle imprese e un'attività secondo la Commissione parlamentare antimafia nel 1993 «condizionata dalle organizzazioni camorristiche». Era il meccanismo degli appalti, attraverso il sistema della concessione, che lo consentiva. Intanto, i fondi per completare la ricostruzione venivano bloccati o dirottati altrove e nell'Italia dei mille terremoti, ma senza un corpo normativo organico a misurarsi con il dato tragicamente consegnato dalle cronache, succedeva che Massimo Cialente, sindaco dell'Aquila colpita dal sisma del 6 aprile 2009, confessasse il suo disappunto nell'affrontare le fasi dell'emergenza e della ricostruzione senza una legge come la 219. Un segno dei tempi, in un Paese che non riesce a ricordare e a trarre lezioni dal passato.

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