Il teatro degli imperatori
ingoiato dai palazzi:
Anticaglia, che storie

Il teatro degli imperatori ingoiato dai palazzi: Anticaglia, che storie
di Vittorio Del Tufo
Domenica 14 Marzo 2021, 07:00 - Ultimo agg. 16 Marzo, 16:00
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«Giace ai miei piedi, come un gigantesco anfiteatro, la città meravigliosa con il suo brusio»

(Paul Klee, Diari)

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«Per me e per quanti amano le patrie glorie, quelle mura sono sacre: io le guardo sempre con religiosa venerazione». Per vivere la città antica - la Napoli greco-romana - nella sua dimensione più autentica, quasi intima, bisogna lasciarsi alle spalle i due Decumani più noti - quello Maggiore (via Tribunali) e quello Inferiore (Spaccanapoli) - e risalire verso la collina di Caponapoli, dove sorge il sontuoso complesso degli Incurabili. E una volta imboccata via Anticaglia, nel cuore del Decumano Superiore, provare a guardare i due contrafforti romani che scavalcano la strada con gli stessi occhi con cui li guardava Bartolommeo Capasso, il padre nobile degli studi sulla città antica. Quelle due massicce arcate in laterizio in epoca romana erano le strutture di rinforzo della cavea del Teatro scoperto, oggi completamente inglobato dalle costruzioni moderne. Un teatro fantasma nel cuore della città anfiteatro, primo centro della cultura ellenica nell’Italia meridionale. 

Ma forse, più che guardare con «religiosa venerazione» i due archi fabbricati a mattoni che scavalcano la strada, dovremmo guardarli con occhio vigile, per scongiurare il rischio che quel monumento alla memoria, oggi circondato dal degrado, venga reso definitivamente irriconoscibile.

Lasciamoci guidare ancora dalle parole di don Bartolommeo: «Passando sotto le basse volte di quegli archi, la mia fantasia attraversa i secoli e, come per incanto, si trasporta ai tempi che furono. Essa ricostruisce il diruto teatro, in cui Claudio fece rappresentare la sua commedia, e volle Nerone dar saggio della sua voce e dell’arte sua musicale».

Se l’amenissima Baia, con le sue sorgenti termali, era soprattutto luogo di ozi e piaceri (qui venivano in vacanza Giulio Cesare, Pompeo Magno, Marco Antonio, Cicerone e Lucullo) Neapolis con i suoi prosceni era l’ombelico della vita culturale dell’impero. Quella Napoli ellenica e mistica, che ancora vestiva e viveva alla greca, amava i giochi e le feste, la musica e il canto, e aveva conservato i suoi dèi, da Priapo a Mithra, esercitò un’attrazione fortissima soprattutto sul terribile Nerone e sulla sua claque di Alessandrini. E il sito ancora oggi più ricco di fascino, tra quelli frequentati da Nerone, resta il mitico teatro dove l’imperatore si esibì, con i suoi archi inglobati dalle case dell’Anticaglia.

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Nerone l’Anticristo, il Grande Dissoluto, il Dio di fango e di delitti, come fu definito, che visse a cavallo tra l’era pagana e l’era cristiana, amava Napoli - la più «greca» tra le città dell’impero, per tradizioni e stili di vita - e scelse di compiervi almeno due viaggi, per immergersi anima e corpo (soprattutto il corpo) nei suoi postriboli e nei suoi teatri. Nerone, il cui sconfinato ego è stato per qualche anno l’ombelico del mondo, era a tal punto convinto di padroneggiare le belle arti da non farsi scrupolo alcuno di trasformarsi in guitto. È ciò che accadde in occasione del secondo viaggio a Napoli, avvenuto nel 64 d.C. Il Divo, ghiotto di applausi e di allori, aveva scelto il teatro scoperto dell’Anticaglia per esibirsi come poeta (al pari del suo maestro Seneca) e come cantante. Si riteneva infatti un interprete di eccelso valore, nonostante la sua voce fosse roca e sgradevole, ed erano guai per chi osasse storcere il naso. Così il tiranno fece annunciare, «colle trombe che percorreano tutti i rioni», il suo spettacolo, che sarebbe durato due giorni e due notti. Quello spettacolo sarebbe passato alla storia per un episodio tragicomico.

Sui pubblici manifesti, con il nome dell’artista Claudio Domizio Nerone, v’erano quelli di altri tenori, per cosi dire, d’accompagnamento.

Appena l’imperatore cominciò a intonare Gli sventurati amori della poetessa Saffo, la terra prese a tremare violentemente e nel teatro dell’Anticaglia si scatenò il panico. Solo Nerone, mentre intorno a lui tutto franava, mentre le colonne, le statue e le volte dell’emiciclo ondeggiavano paurosamente, restò al suo posto. E continuò a straziarsi l’ugola. Poi costrinse gli spettatori a riprendere posto; per blandirli, non esitò ad affermare che quel terremoto era l’applauso degli dèi per il suo bel canto.

Il teatro romano rimase visibile fino all’avvento della dominazione spagnola. Poi gli ambienti tanto cari a Nerone furono adibiti a stalle, depositi e cantine. Con il tempo è stato ingoiato - letteralmente - dagli edifici che si affacciano su via dell’Anticaglia, via San Paolo e vicolo Cinquesanti. Parte del teatro venne distrutta proprio per consentire l’apertura del vicolo Cinquesanti (tra il 1569 e il 1574) e la costruzione del convento dei padri Teatini. Quando fu realizzato il vicolo Cinquesanti, molti dei materiali utilizzati per costruire il teatro romano erano già stati asportati dai Teatini per costruire la chiesa di San Paolo.

I contrafforti in laterizio che ancora oggi scavalcano via Anticaglia risalgono alla fine del II-inizio del III secolo d. C. Avevano una funzione di passaggio coperto di collegamento tra il teatro e un grande edificio pubblico ubicato nel complesso di Santa Patrizia. Invece vico Cinquesanti, che collega la strada dell’Anticaglia con via Tribunali, taglia di netto il tracciato dell’antico teatro. Qui venne a vivere, nel 1533, San Gaetano da Thiene, il prete vicentino che nel 1527 fondò l’ordine dei Chierici Regolari Teatini. A metà della strada, nel luogo dove sorgeva la casa di Gaetano Thiene, un’edicola votiva ricorda i nomi dei cinque religiosi che hanno dato il nome al vicolo, primo fra tutti San Gaetano, il «santo del popolo» al cui ordine sacerdotale il viceré don Pedro de Toledo consegnò la basilica di San Paolo Maggiore. E poi gli esponenti più importanti del culto, che abitarono tutti tra queste mura: Giovanni Marinoni, Sant’Andrea Avellino, Giacomo Torno e Paolo Burali d’Arezzo.

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Sei milioni di euro. A tanto ammonta l’importo complessivo degli interventi di valorizzazione e restauro del Teatro Romano, che inizieranno nei prossimi mesi - presumibilmente tra giugno e luglio - nell’ambito del Grande Progetto Unesco per il centro storico. Il Comune, con l’assessore all’urbanistica e vicesindaco Carmine Piscopo, vuole accelerare ma bisogna prima perfezionare le procedure di esproprio dei numerosi frammenti di mura romane inglobati all’interno delle abitazioni private che si affacciano su vico Cinquesanti, via San Paolo e via dell’Anticaglia. Un autentico ginepraio. Naturalmente gli espropri, per i quali si sta procedendo ad accordi bonari con i singoli proprietari, si riferiscono alle parti di muratura romana inglobate nelle abitazioni, e non agli interi stabili. Poi aprirà il cantiere vero e proprio: responsabile del progetto (rup) è il Comune mentre la stazione appaltante è il provveditorato alle opere pubbliche. Tutto avverrà, ovviamente, sotto la supervisione e il controllo della Soprintendenza.

L’obiettivo è proprio quello di rendere visibile - e visitabile, al pari di un anfiteatro a cielo aperto - quante più porzioni possibili dello straordinario monumento oggi sepolto, restituendolo in questo modo alla fruizione collettiva. Un anfiteatro di pietra che potrà essere sottratto a un destino di rovina, ne siamo convinti, solo se verrà messo in luce. Solo se verrà reso visibile quanto ora è nascosto sotto strati di abusivismo e degrado.

(1/ continua)

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