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Il Centro Direzionale di Napoli e le paludi della leggenda

Dagli inchini del maestro Tange alla nascita della cittadella

Il Centro Direzionale di Napoli
Il Centro Direzionale di Napoli
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Domenica 8 Gennaio 2023, 10:18 - Ultimo agg. : 9 Gennaio, 06:03
6 Minuti di Lettura

«La distesa verdognola degli stagni non c'era più, la vecchia fabbrica di conserve si era dissolta. Al loro posto, c'erano i bagliori dei grattacieli di vetro, segni una volta di un futuro raggiante cui non aveva creduto mai nessuno».

(Elena Ferrante, L'amica geniale).

È una cattedrale nel deserto, senza anima e senza memoria. Ma è anche il simbolo di una certa idea di Napoli che guarda al futuro, una promessa di modernità che eleva verso il cielo la città-babilonia, sprofondata nel baratro del proprio passato. Il Centro Direzionale non ha ricordi, la sua è una storia di paludi e fiumi segreti, di corsi d'acqua interrati per costruirci sopra una cittadella di vetro e di acciaio. È un luogo della mente, nato dall'idea un po' folle di un giapponese visionario.

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Era il 1982 quando Maurizio Valenzi, primo comunista alla guida della città, illustrò alla stampa il progetto destinato a cambiare per sempre il volto di Napoli. Quel giorno la squadra di governo era disposta alle sue spalle, davanti a tutti c'era il braccio destro del sindaco, Andrea Geremicca. Ma gli sguardi del pubblico e i flash dei fotografi erano tutti per un piccolo uomo cresciuto a Imabari, sull'isola di Shikoku. Si chiamava Kenzo Tange e accompagnava le parole del sindaco con piccoli inchini.

Tange, laureatosi alla Tokyo Imperial University nel 1938, venne presentato quel giorno come «fantasioso e audace, autore di grandi e spettacolari architetture, ma anche di avveniristici piani urbanistici». Un maestro apprezzato sia dagli europei che dagli americani per aver trovato un nuovo stile, in grado di creare un ponte tra l'arte orientale e le tecniche dell'Occidente. 

Nasceva così il Centro Direzionale di Napoli. Piccoli inchini e grandi sogni. Nasceva per dare la spinta verso il futuro a una città eternamente ripiegata su sé stessa. Ma bisogna viaggiare più indietro nel tempo per risalire alle origini della cittadella. E risalendo nel tempo bisogna ricordare un grande architetto e urbanista del Novecento, Luigi Piccinato. Fu lui - a capo della commissione per il nuovo piano regolatore - a individuare per primo nella zona di Poggioreale, e più esattamente tra il fascio di binari della stazione, il carcere e lo stradone di Gianturco - l'area più idonea per costruire un complesso di strutture da destinare ad attività direzionali, riprendendo quanto già prospettava il piano del 1939 come possibile area di sviluppo sia per il settore residenziale sia per quello direzionale. L'obiettivo era quello di decongestionare il traffico del centro cittadino impedendo l'ulteriore concentrazione di attività direzionali nell'area Carità-Piazza Municipio-Piazza Plebiscito. Quella zona della città, per così dire, aveva già dato.

La proposta di Piccinato viene tradotta in strumento urbanistico nel piano regolatore del 1971: nelle intenzioni dei sostenitori del progetto la collocazione di un centro direzionale nell'area orientale della città avrebbe dovuto favorire una bonifica a tutto campo di un tessuto urbano particolarmente degradato. Mai lo stacco tra le buone intenzioni e la realtà fu più evidente.

Fu però solo nel 1982, dopo la bocciatura di numerose proposte, che il progetto esecutivo venne affidato al famoso architetto giapponese Kenzo Tange (scomparso a Tokyo nel 2005). Il progetto di Tange viene universalmente apprezzato, divenendo oggetto di studi internazionali. Arrivano a Napoli delegazioni da tutto il mondo, attirate dalla rivoluzione urbanistica che stava avvenendo a Napoli. Restano tutti ammirati dal plastico del maestro giapponese, forse in pochi si aspettavano che il capoluogo campano riuscisse a mettere in campo un progetto tanto innovativo.

Circa tre anni dopo la presentazione del progetto si avviano i cantieri. La costruzione dei grattacieli venne affidata ad architetti e progettisti di fama internazionale: tra gli altri, Renzo Piano disegnerà il palazzetto della Olivetti, Massimo Pica Ciamarra, affiancato da un team di architetti qualificati, si occupò delle due Torri ENEL, e Nicola Pagliara progettò le Torri del Banco di Napoli oltre che il Palazzo dell'Edilres. La grandeur dei grattacieli, notarono in molti, mal si conciliava con l'area circostante, i quartieri del Vasto e di Poggioreale, afflitti da un antico degrado. Tra i più fieri avversari del Centro Direzionale vi fu Antonio Jannello, padre dell'ambientalismo italiano e presidente dal 1973 al 1985 della sezione napoletana di Italia Nostra. Il quale considerava il nascente Centro Direzionale una specie di travestimento, un'illusione ottica che spiazza il visitatore inducendolo a pensare che ai piedi del Vesuvio si sia trasferito un pezzo di Chicago. Ma la cittadella, con i suoi vetri a specchio montati su grattacieli di varia fantasia geometrica, prese ugualmente anche se lentamente forma, tra numerosi stop and go e drammatici intoppi, come l'incendio del 1990 che divampò nel nascituro Palazzo di Giustizia.

Ma cosa c'era in quell'area prima del Centro Direzionale? Il vecchio scasso, il macello, il mercato ortofrutticolo. Vecchie aziende di carpenteria. Terreni incolti. Baracche per la rivendita di ricambi provenienti da auto usate. Ma soprattutto paludi. Il Centro Direzionale fu edificato in un terreno paduloso. Sulle stesse paludi, quelle di Napoli Est, è sorto tra il 1914 e il 1925 il Rione Luzzatti, verso Poggioreale. Gli anziani del rione ricordano che costeggiando la scarpata della vicina ferrovia un fiumiciattolo arrivava fino a piazza Coppola. Questa è sempre stata una zona di stagni. Il motivo è da ricercare nella conformazione orografica di quest'area della città. Il Rione Luzzatti fu costruito nella zona dove si trovavano le antiche conche del Pasconcello, affondate nella zona delle paludi napoletane. Ancora nei primi decenni del Novecento il territorio era talmente paludoso che per raggiungere le abitazioni costruite dall'Istituto Case Popolari bisognava servirsi di una barca.
Prima che gli sconvolgimenti subiti dal territorio - a cominciare dal grande maremoto del 1343 di cui fu testimone Petrarca - ne provocassero la scomparsa, o per meglio dire l'ingrottamento, la zona dove oggi sorge il Centro Direzionale era lambita dalle acque del mitico fiume Sebeto, o più probabilmente del Ribeolo, che del Sebeto era una diramazione. Di quei corsi d'acqua restano ancora tracce, sparse qua e là. Come nei sotterranei della chiesa della Sacra Famiglia, dove sorge una vera e propria falda acquifera che prosegue fino alla cittadella dei grattacieli.

Fiume caro agli dèi e ai poeti, fu venerato dal popolo, che lo temeva come si teme un Dio, e lo trattò sempre con deferenza. Fu chiamato Rivus, Ribeolo, Ninpha, e poi, affettuosamente, Sciummitiello. Virgilio gli rese omaggio nel VII libro dell'Eneide, Boccaccio si mise in testa di cercarlo, e per mesi perlustrò campi e canali, senza trovarlo. Fu adorato a lungo, il Sebeto, e dimenticato in fretta: già nel 1635, quando a Cosimo Fanzago fu commissionata la costruzione della Fontana del Sebeto, il fiume che bagnava Napoli doveva appartenere ormai più alla leggenda che alla realtà. Ma come può, un fiume, scomparire da un momento all'altro? La teoria più accreditata attribuisce la fine del Sebeto a fenomeni naturali quali eruzioni e maremoti, come il terribile tsunami del novembre 1343, quando il mare si alzò fino a San Marcellino, dove oggi sorge la facoltà di Geologia.

Proprio la conformazione orografica della zona ha fatto sì che la nascita del Centro Direzionale fosse accompagnata da feroci polemiche. Gli ambientalisti hanno cercato fino alla fine di far valere le loro ragioni. Se costruiamo una struttura - il loro ragionamento - che va a sbarrare il deflusso sotterraneo delle acque verso il mare, si determina un episodio più che prevedibile: il livello della falda, sbarrata, si solleva. Lo sbarramento della falda verso il mare determina il suo sollevamento. Negli anni 80, il Centro Direzionale fu effettivamente costruito su uno sbarramento fatto da centinaia di pali che ha determinato il sollevamento della falda a monte. Il sollevamento della falda può provocare fenomeni di subsidenza, ovvero danneggiamenti delle strutture in elevazione. Mentre il placidissimo Sebeto cantato dal Sannazaro non scorre più. O forse scorre ancora, ma chissà dove, magari nelle viscere della città capovolta, di certo nel sottosuolo della nostra memoria.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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