L'Apocalisse a Napoli,
quella copia «autentica»
del Giudizio Universale

L'Apocalisse a Napoli, quella copia «autentica» del Giudizio Universale
di Vittorio Del Tufo
Domenica 20 Marzo 2022, 11:17 - Ultimo agg. 21 Marzo, 06:00
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«Ma io non sono ancora
nel regno dei cieli
sono troppo invischiato
nei vostri sfaceli»

(Giorgio Gaber, Io se fossi Dio)

Roma, Cappella Sistina. È l'ultimo giorno dell'uomo sulla terra, gli angeli suonano le trombe dell'Apocalisse. I dannati precipitano verso l'inferno mentre i beati ascendono verso il Paradiso. Cristo, al centro della scena, chiama con sé i giusti. Intorno alla sua figura sono disposti a corona alcuni personaggi dell'Antico Testamento: apostoli, profeti, eroine, sibille e patriarchi. Siamo tra le meravigliose e terribili scene del Giudizio Universale, l'affresco che Michelangelo realizzò tra il 1536 e il 1541 per decorare la parete dietro l'altare della cappella intitolata a papa Sisto IV della Rovere. Uno dei più grandi capolavori dell'arte occidentale e della storia dell'uomo.

Napoli, museo di Capodimonte. Nella sala 9, una delle stanze che ospitano la collezione Farnese, possiamo ammirare la stessa scena. Con alcune piccole variazioni: nel dipinto custodito a Capodimonte, tra i sommersi e i salvati, compare la colomba dello Spirito Santo e, più su, a troneggiare su Cristo giudice e sull'intera scena, la figura di Dio Padre, assenti nel capolavoro di Buonarroti. Ma è un altro il particolare che rende unica la copia del Giudizio Universale conservata nel museo di Capodimonte. Il dipinto di Venusti è un prezioso documento storico perché consente di ammirare l'affresco di Buonarroti in formato ridotto ma nella sua versione originaria, dunque prima dei rigidi dettami imposti dal Concilio di Trento e dalla Controriforma in tema di nudità. Quando Venusti copia il Giudizio Universale, sul genio di Michelangelo non era calata ancora la scure della censura. 

Cinque anni, dal 1536 al 1541. Tanto durò l'impresa del sessantunenne Michelangelo alla Cappella Sistina. Un'impresa quasi sovrumana: cinque anni di tormento ed estasi durante i quali non mancarono né i contrasti con i committenti né gli incidenti, come quello che si verificò nel 1540, quando Michelangelo cadde dai ponteggi e fu costretto a fermarsi un mese per la guarigione. Il Papa era Paolo III Farnese, successore di Clemente VII, esponente della famiglia fiorentina dei Medici. Fu il Papa Farnese a pretendere che Buonarroti si concentrasse unicamente sul nuovo incarico, nominandolo pittore, scultore e architetto del Palazzo Vaticano. L'opera venne terminata nel 1541 e scoperta la vigilia di Ognissanti. Nel vorticare delle anime di beati e dannati, gli storici dell'arte e gli studiosi di Michelangelo vedono gli incubi che ottenebravano la sua mente. Tutto è inquietudine, caos, paura, sgomento. Tutto è furore. Dies irae. «La moltitudine delle figure, la terribilità e grandezza dell'opera è tale, che non si può descrivere, essendo piena di tutti i possibili umani affetti et avendogli tutti maravigliosamente espressi», scrisse Vasari nelle sue

Vite de' più eccellenti pittori, scultori e architettori (1568). Ma accanto alle lodi più sperticate il Giudizio Universale divenne fin dall'inizio anche bersaglio di accuse e feroci invettive, ben poco divine. Moraleggianti censori se la presero con quei corpi meravigliosamente nudi ritenendoli poco adatti a un contesto così spirituale. Piovvero insulti e accuse di oscenità. «Non mi par molta lode che gli occhi de' fanciulli e delle matrone e donzelle veggano apertamente in quelle figure la disonestà che dimostrano, e solo i dotti intendano la profondità delle allegorie che nascondono», scrisse Ludovico Dolce nel 1557 nel suo Dialogo della Pittura.

I reverendissimi Chietini furono in prima fila nella battaglia per la moralità perduta, e poeti come Pietro Aretino, ma soprattutto illustri presbiteri come il maestro di cerimonie Biagio da Cesena gridarono allo scandalo invocando il Giudizio, sì, ma per l'autore del capolavoro. Pietro l'Aretino - che ce l'aveva a morte con Michelangelo perché non aver accettato i suoi consigli sulla realizzazione dell'affresco - arrivò a sostenere che nemmeno i gentili (i pagani) avevano mai mostrato tanti corpi nudi in un colpo solo!

Insomma furono tempi duri che si conclusero (nel 1564, un anno dopo la fine del Concilio di Trento) con la decisione di coprire gli «scandalosi nudi» della Cappella Sistina.

Un'umiliazione che per sua fortuna Michelangelo - per il quale il nudo era bellezza pura - si risparmiò, essendo morto pochi mesi prima. L'ingrato compito di mettere le braghe ai santi venne affidato a Daniele da Volterra, artista vicino a Michelangelo, che per questo suo ingrato lavoro sarebbe passato alla storia con il soprannome di Braghettone. Particolarmente scandaloso, ai bacchettoni dell'epoca, era apparsa la sacra schiena di Santa Caterina e San Biagio che quasi vi si appoggia. «Per meglio fare le persone ridere, l'ha fatta chinare (santa Caterina) dinanzi a san Biagio con atto poco onesto, il quale, standole sopra coi pettini, par che gli minacci che stia fissa, et ella si rivolta a lui in guisa che dice che farai? o simil cosa», scrisse Giovanni Andrea Gilio al papa, suggerendogli di far coprire lo sconcio. Daniele da Volterra andò oltre e scalpellò addirittura via l'originale, ridipingendo la scena. Gli interventi di censura, con braghe e panne svolazzanti a coprire le nudità, continuarono anche dopo la morte di Braghettone.

Roma, 1549. Michelangelo ha 74 anni e ha completato da otto anni il suo Giudizio Universale. La scure della censura non è ancora calata sull'affresco (accadrà anni dopo) ma negli ambienti ecclesiastici, e non solo, sono in molti a storcere il naso. Il cardinale Alessandro Farnese, uomo coltissimo e grande mecenate, forse temendo che a qualcuno potesse venire in mente la brillante idea di distruggere il capolavoro, chiede al pittore lombardo Marcello Venusti di realizzarne una copia, da poter conservare presso la propria collezione di famiglia. Non poteva immaginare, il «gran cardinale», come veniva chiamato, che la copia commissionata a Venusti sarebbe diventata un documento storico eccezionale. Non poteva immaginarlo nemmeno il pittore lombardo, che esegue con diligenza il suo compito aggiungendo però, all'originale michelangiolesco, alcune significative aggiunte, come la colomba dello Spirito Santo sopra la testa del Cristo Giudice e, nello spazio che nella Sistina occupa il peduccio della volta, di un Padre Eterno in volo. Aggiunte (Spirito Santo e Dio) che riformano il capolavoro in un senso più aderente ai dettati della Controriforma.

Liddove, in Michelangelo, Gesù è solo - solo e furente nel magma ribollente di figure che lo attorniano: è Cristo che giudica, condanna e salva - nella copia di Venusti compare la Gloria della Trinità. Venusti si concede anche altre libere interpretazioni. Nella figura di San Pietro compare Paolo III (il Papa Farnese) e spunta, nell'angolo in basso a sinistra, lo stesso volto di Michelangelo.

Ma al di là di queste pur significative variazioni sul tema, il dipinto su tavola di Marcello Venusti consente di ammirare le apocalittiche scene dell'affresco così come le aveva concepite Michelangelo. Fu certamente preveggente il cardinale Alessandro Farnese il giovane, detto il Gran Cardinale e nipote del più importante Alessandro Farnese, che sedeva sul soglio pontificio come Paolo III.

La copia del Giudizio universale del Venusti finì, insieme con tutta la Collezione Farnese, al Museo Nazionale di Capodimonte, dove si trova tuttora. Era il 1734 quando Carlo di Borbone, divenuto re di Napoli, decise di trasferire la collezione ereditata dalla madre, Elisabetta Farnese, nella capitale del Regno. Quella collezione costituisce ancora oggi il nucleo fondante del Museo di Capodimonte, di cui occupa l'ala orientale del piano nobile del palazzo voluto dal sovrano nel 1738, anche con l'intenzione di dare collocazione adeguata al ricco patrimonio ereditato.

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