La ballata di Ferrandino: un trono di spade nella Napoli aragonese

Un tempo, tra i corpi imbalsamati, c'era anche quello di Alfonso, morto di malaria nel 1458. Ora invece la sua cassa è vuota

La ballata di Ferrandino: un trono di spade nella Napoli aragonese
La ballata di Ferrandino: un trono di spade nella Napoli aragonese
di Vittorio Del Tufo
Domenica 11 Dicembre 2022, 12:00
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«Lungo le sponde del mio torrente
Voglio che scendano i lucci argentati
Non più i cadaveri dei soldati
Portati in braccio dalla corrente»

(Fabrizio De Andrè, La guerra di Piero)

* * *
Così sventurato, così innocente. Benedetto Croce, nelle sue Storie e leggende napoletane, descrive così il «bel» Ferrandino, al secolo Ferdinando Trastámara d'Aragona, che fu re di Napoli poco meno di due anni, dal gennaio 1495 all'ottobre 1496. Così innocente, così prode, scrisse ancora don Benedetto decantando il giovanile ardore con il quale il principe ereditario, il non ancora re Ferrandino, figlio del timoroso Alfonso II d'Aragona, si predisponeva a respingere l'assalto delle truppe francesi, lanciate alla conquista di Napoli in quel decennio di spade e fiamme.

È il settembre 1494 quando il re di Francia, Carlo VIII, ritenendo che gli Aragonesi avessero usurpato il trono agli Angioini e vantando lontani diritti ereditari sulla corona, marcia alla conquista del Regno di Napoli. Siamo ormai ai titoli di coda del dominio aragonese, che era iniziato alcuni decenni prima (1442) con l'ingresso trionfale in città di Alfonso I, detto il Magnanimo. Dunque il re di Francia cala in Italia e re Alfonso II, tormentato dagli incubi e dal ricordo degli avversari uccisi, «dubitando di tutto e di sé stesso e avvolto dall'odio generale» (Croce), sceglie di abdicare affidando le traballanti chiavi del regno al figlio, il principe ereditario Ferrante, da allora chiamato Ferrandino per distinguerlo dall'avo, re Ferrante, figlio di Alfonso il Magnanimo.

«Torniamo a Ferdinando el giovenetto/che si vede nel regno incoronato/L'ardir, la gioventù gli scalda el petto/desideroso di salvar suo Stato/prese partito e fe' questo concetto/di non voler in casa esser serrato/ma come nuovo re francho e potente/di farsi incontra a la nemica gente» (Gerolamo Senese. La venuta del Re Carlo)

Una cosa, a Ferrandino, premeva più della sua stessa vita. Battersi contro i francesi. «Si strugge - scrisse Bernardo Dovizi da Bibbiena, cardinale e diplomatico alla corte dei Medici di Firenze - et gli pare mille anni essere alle mani con loro».

Era talmente impaziente di affrontare gli usurpatori a viso aperto, il rampollo di re Alfonso, che non esitò ad andare loro incontro, durante la marcia verso Napoli di re Carlo. E provocarli, nei loro stessi accampamenti, per farli uscire allo scoperto. Così, con lo elmetto in testa et la lanza su la cossa, Ferrandino attendeva che il nemico gli si parasse davanti. Avanti, mostratevi, vi sto aspettando. La guerra di nervi lo logorava, preferiva il vero campo di battaglia. Un giorno inviò un araldo al capitano nemico, Gianfrancesco Sanseverino d'Aragona conte di Caiazzo, a domandargli «se voleva venir rompere qualche lanza». Ma il capitano nemico non si degnò di rispondergli. Rinnovò allora la sfida a un altro capitano d'Oltralpe, Robert Stuart d'Aubigny, e il francese stavolta accettò, ma il conte di Caiazzo impedì che si tenesse la prova e Ferrandino, deluso, dovette accontentarsi di piccole schermaglie.

Quando il papa Alessandro VI, accordatosi con i francesi, gli offrì un salvacondotto con il quale avrebbe potuto attraversare indisturbato l'intero Stato Pontificio così da tornarsene a Napoli, il bel Ferrandino, sdegnato, rifiutò. Così se ne uscì da Roma per la porta di San Sebastiano, proprio mentre da quella di Santa Maria del Popolo entrava re Carlo VIII con l'esercito degli occupanti.

Il 22 febbraio 1495 Carlo VIII entra a Napoli, tra tappeti di fiori: non incontrerà alcuna resistenza. L'esercito scappa senza nemmeno incrociare le armi con il nemico. E i napoletani, sempre pronti ad acclamare nuovi padroni, accolgono come un eroe l'ennesimo invasore, come già accaduto tante volte in passato e tante volte sarebbe accaduto in futuro. Il re di Francia saccheggia subito la capitale, non risparmia nemmeno la biblioteca di Alfonso il Magnanimo, a Castel Nuovo. Sceglie come dimora Castel Capuano, l'antica reggia fortificata dei sovrani normanni. Gli Aragonesi, traditi dal popolo, non possono far altro che piegare la testa. A consegnare le chiavi della città a Carlo VIII è l'umanista Giovanni Pontano, che pure era stato beneficiato dai sovrani di Casa d'Aragona. A Ferrandino non resta che riparare a Ischia: per entrare nella fortezza dell'isola dovrà usare la forza, mozzando la testa con un colpo di spada al castellano, Justo della Candida, colpevole di aver ritardato la sua presa di possesso dell'isola. Lui, il giovane guerriero senza trono, decide di non piegare la testa. Quando Carlo gli offre alcuni possedimenti in Francia, chiedendogli di rinunciare a ogni pretesa sul Regno di Napoli, oppone l'ennesimo rifiuto: vuole vivere e morire da re, nonostante tutti gli abbiano voltato le spalle, a cominciare dai nobili della città, nostalgici del periodo angioino.

Ma il regno di Carlo VIII non dura che pochi mesi. L'arroganza del re e dei nobili francesi arrivati al suo seguito, la presunzione del sovrano di dettar legge sull'intera penisola, spingono gli altri stati italiani e stranieri a coalizzarsi contro il nuovo padrone di Napoli, e Ferrandino a riorganizzare le armate partenopee. La simpatia per i conquistatori francesi si tramuta presto in odio, odio feroce alimentato dai soprusi della soldatesca. Così, quando viene a sapere che le truppe della Lega Santa stanno marciando verso Napoli, e che il popolo è pronto a insorgere contro di lui, Carlo VIII abbandona la città e se ne torna in patria con l'esercito. Ferrandino, acclamato dai napoletani, può rientrare in città, attraverso il Ponte della Maddalena e la porta del Mercato, e sedersi nuovamente sul trono. Per prima cosa, decide di sposare sua zia Giovannella (infanta di 19 anni, nata dal secondo matrimonio del vecchio re Ferrante, con Giovanna d'Aragona) con l'obiettivo di ottenere il sostegno del re di Spagna, della quale la ragazza era nipote.

Non poteva immaginare, il bel Ferrandino, che di lì a pochi mesi sarebbe morto, a causa di una ricaduta della malaria contratta mesi prima in Puglia e nelle Calabrie, terre di combattimenti. Negli ultimi due anni non si era concesso un solo attimo di riposo. Racconta Benedetto Croce che quando, moribondo, ripensava agli ultimi suoi anni trascorsi a guerreggiare, ai rovesci, alle ansie, alle fatiche e alle fortune, e alla «finale vittoria toccata ma non goduta», Ferrandino con un sibilo di voce ripetesse la famosa terzina del Petrarca:

Oh cechi, il tanto affaticar che giova?
Tutti tornate alla gran madre antica,
E il vostro nome appena si ritrova.

Nel testamento, aveva nominato erede universale del regno don Federico, suo zio paterno. Quest'ultimo dunque, in assenza di eredi diretti, salì al trono con il nome di Federico I di Napoli, ultimo re napoletano della dinastia aragonese.

Il corpo del giovane Ferrandino, il re guerriero che regnò solo due anni, dal 1495 all'anno della morte che lo colse appena ventisettenne, riposa nel Passetto dei Morti, sul ballatoio che sovrasta la sacrestia di San Domenico Maggiore. Ferrandino è in buona compagnia: su quel Passetto si trovano ben 42 sarcofagi funerari, che accolgono i corpi di dieci re e principi aragonesi e di altri nobili napoletani deceduti tra la seconda metà dei XV a tutto il XVI secolo. Qui era sepolta l'intera dinastia che, tra il 1442 e il 1503, fece la storia di Napoli. Dopo di loro, e per oltre due secoli, la città scomparve dal concerto delle potenze e diventò una provincia del grande impero spagnolo.

Un tempo, tra i corpi imbalsamati, c'era anche quello di Alfonso, morto di malaria nel 1458. Ora invece la sua cassa è vuota: le spoglie del Magnanimo - il sovrano che entrò vittoriosamente a Napoli nel 1442 sfruttando lo stesso percorso dell'acquedotto già adoperato da Belisario novecento anni prima - furono traslate nel 1668 in Spagna. Era stato lo stesso re aragonese a esprimere, nel testamento, il desiderio di essere portato nel luogo dove erano sepolti i suoi antenati.

Pace all'anima sua. E a quella del bel Ferrandino: così sventurato, così innocente. 

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