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‘E mellune chine ‘e fuoco, la rumba degli scugnizzi e dei mestieri scomparsi

Nei nomi delle strade c'è la fatica di vivere degli artigiani che vi lavoravano, facendo muovere l'economia del vicolo

La rumba degli scugnizzi e dei mestieri scomparsi
La rumba degli scugnizzi e dei mestieri scomparsi
di Vittorio Del Tufo
Articolo riservato agli abbonati
Domenica 21 Maggio 2023, 10:00
6 Minuti di Lettura

«Signurìa buongiorno eccellenza all'apparire della mia presenza, con insistenza addò nisciuno me penza, faccio appello alla vostra indulgenza, e dimostratemi nu poco e benevolenza».

(Eugenio Pragliola detto Eugenio cu e llente).

* * *

C'erano una volta gli spadari, i pazzarielli e i tinellari. E poi i chianchieri, gli ammazzapiecure e gli impagliafiaschi. Ma anche gli scopari, gli scoppettieri ed i maruzzari. E come dimenticare, con decenza parlando, i chiavettieri? I vicoli di Napoli sono un mondo: un mondo scomparso, ma forse no. Sono le nostre radici e la nostra memoria, sono le ombre in fuga del nostro passato, sono il "deposito" magico di storie e leggende che credevamo perdute. Dio salvi, e preservi, la toponomastica. Perché è negli infiniti labirinti della toponomastica che la storia di ieri si intreccia con quella di oggi, dando a quest'ultima un senso.

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Nei nomi delle strade c'è la fatica di vivere degli artigiani che vi lavoravano, facendo muovere l'economia del vicolo. Un palcoscenico a cielo aperto che ha subito, con i decenni, un'autentica mutazione genetica. L'area di piazza Mercato è ancora oggi un teatro della memoria viva. Qui lavoravano i campagnari, ovvero i fonditori di campane. E i conciari, conciatori di pelli. Fu Carlo d'Angiò, il giustiziere di Corradino di Svevia, a trasferire e concentrare in questa zona le più importanti attività artigianali che si trovavano ai Decumani. Alle spalle di via Marina sorge il vico Zabatteria, che Salvatore Di Giacomo descrisse così: «Antica e sudicia e puzzolente stradicciola ch'era, nei vecchi tempi, il quartier generale de' fabbricatori di ciabatte, ossia de' calzolai, democratici dell'epoca». Gli scoppettieri, invece, erano fabbricanti di schioppi e altre armi da fuoco: a ricordare il loro insediamento ecco vico degli Scoppettieri, ancora a ridosso di via Marina, stavolta all'incrocio con via Porta di Massa. Il vicoletto Chianche, nei pressi del borgo Orefici, ricorda i mitici chianchieri, ovvero beccai e macellai. La parola deriva dal latino planca, ovvero la panca di legno adoperata dai beccai come appoggio per disossare e affettare la carne. Giulio Mendozza, autore di saggi e di numerosi studi sui mestieri scomparsi di Napoli, arriva a descriverne un'ottantina. Non tutti hanno una strada che li ricordi. A Napoli esiste una via dei Bottari e una via dei Tinellari, una via Candelari e un vico Figurari (e così via) ma non esiste, per dire, un vico Ammazzapiecure. Forse perché gli ammazzapiecure - ricorda Mendozza - facevano un mestiere «tutt'altro che gratificante: giravano per le case nel periodo pasquale con gancio e coltello, per ammazzare, 'o pecuriello che ogni famiglia comprava per devozione». 

La chiesa di Sant'Eligio dei Chiavettieri, a Forcella, già chiesa di Santa Maria ad Ercole, sorge nel luogo dove in epoca romana si trovava il tempio di Ercole, il mitico eroe delle dodici fatiche. In realtà la questione è controversa, e ha dato origine a una deliziosa disputa accademica. Molti studiosi, infatti, sostengono che il tempio di Ercole sorgesse, sì, a Forcella ma più esattamente dove si trova oggi la chiesa di Sant'Agrippino, che fu protettore della città e vescovo nel II secolo. Sant'Eligio dei Chiavetteri sorge tra via Cesare Sersale e vicoletto Chiavettieri al Pendino. Ha una storia antichissima, fu edificata durante la dominazione sveva. L'edificio è chiuso al culto da diversi decenni. Alla fine del XV secolo la chiesa venne ceduta alla corporazione degli spadari e poi alla confraternita dei chiavettieri (fabbricanti di chiavi) che la intestarono a Sant'Eligio, la ridecorarono e l'arricchirono di opere d'arte; nel 1624 divenne la sede della Congregazione del Salvatore e di Santa Maria Materdei, i cui membri restaurarono nuovamente l'edificio dotandolo di una veste settecentesca. Il vicoletto Chiavettieri al Pendino era il luogo degli artigiani dediti all'arte del ferro, esperti, in particolare, nel fabbricare chiavi. 

All'alba le donne scendevano dal Pallonetto per raggiungere il Chiatamone. Lì raccoglievano l'acqua della sorgente del monte Echia, che serviva per rifornire i chioschi di Napoli e della provincia. Dalla sorgente di Monte Echia sgorgava l'acqua delle mummare, dal nome delle anfore di creta con due manici con un tappo di sughero utilizzate per prelevarla - all'altezza dell'attuale hotel Royal Continental - e trasportarla senza il rischio di comprometterne le qualità. La ricchezza delle sorgenti napoletane era riconosciuta in tutto il mondo e in epoca vicereale era particolarmente richiesta dai sovrani di Spagna che, apprezzandone la grande qualità organolettica, mandavano le loro navi cisterna a farne continue scorte. Nell'800 buona parte dei mezzi di sostentamento dei luciani proveniva dalla vendita all'ingrosso e al dettaglio delle acque minerali. Antico e nobile mestiere quello dell'acquaiolo, ha ispirato canzoni e celebri poesie: E denare e ll'acquaiuolo so' cchiù fridde de la neve, ma la gente vene, veve, nun ce penza e se ne va (Salvatore Di Giacomo).

«Capillò!» era il tipico grido di richiamo, quasi un canto, dell'uomo munito di un sacco, o di una sporta, che anticamente percorreva i vicoli per comprare trecce e capelli di donna da rivendere ai fabbricanti di parrucche. Spesso il "capillò" seguiva la rotta delle capere e «la popolarità della sua figura - come ricorda Pietro Gargano nel libro «I mestieri di Napoli» (Newton) - è dovuta soprattutto a una letteratura da melodramma: trezze d'oro e cascate corvine, recise con un solo colpo di forbici, sacrificate in cambio di un tozzo di pane per sfamare e creaturelle». Al grido del capillò! ha reso omaggio anche Raffaele Viviani nella sua A rumba d''e scugnizze, strepitosa canzone tratta dalla commedia L'ultimo scugnizzo (1932):
Chesta è a rumba d"e scugnizze!
Puparuole e aulive...
Magnáteve o cocco, magnáteve o cocco!
Rrobba vecchia...
Pallune p'allésse, pallune p'allésse!
E mellune chine e fuoco...
Na bona marenna, na bona marenna!
Cotogne...
Gelati, gelati, gelati, gelati!
O spassatiempo!
Capillò! 

Se i pulezzastivale si stabilivano soprattutto agli angoli dei Caffè - nell'immediato dopoguerra, quando Napoli era occupata dai militari americani, comparvero gli sciuscià, dall'inglese shoe shine - i purpaiuoli facevano base nell'antico mercato di Santa Lucia, con i loro fornelli accesi per il brodo di polpo da offrire ai passanti rigorosamente bollente.

Sulla figura dei posteggiatori, ambulanti della canzoni, sono stati versati fiumi d'inchiostro. Qui ricordiamo che Vincenzo Marmorino detto Nerone, Pasquale Jovino detto o piattaro, Giorgio Schottler, Salvatore Dell'Aversana, Alfredo Imparato, i fratelli Vezza ed Eugenio Pragliola detto Eugenio cu e llente furono tra gli ultimi epigoni di una tradizione che probabilmente risale alla Napoli del 1200, quando serenate e mattinate erano talmente diffuse da diventare quasi moleste. O quantomeno così dovettero a Federico II, il quale emanò un decreto di proibizione giustificato, pare, dalle continue proteste dei cittadini che non riuscivano a dormire. E forse i primi posteggiatori furono ascoltati anche da Giovanni Boccaccio, che vide i marini liti et i graziosi giardini e annotò: ... d'infiniti stromenti, d'amorose canzoni, così da giovani come da donne fatte sonate e cante, risuonano. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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