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Giulia e gli altri demoni: i tormenti di Augusto nel buio di Trentaremi

Se Napoli è città di miti e leggende, la villa di Vedio Pollione, nella punta più estrema del promontorio, è la porta d'ingresso nel mito e nella leggenda

I tormenti di Augusto nel buio di Trentaremi
I tormenti di Augusto nel buio di Trentaremi
di Vittorio Del Tufo
Articolo riservato agli abbonati
Domenica 22 Gennaio 2023, 10:00
6 Minuti di Lettura

«A te ignota è la terra
Ove ogni giorno affondo
E segrete sillabe nutro»

(Salvatore Quasimodo, Vento a Tindari)

* * *

Negli ultimi anni della sua vita, Augusto ripensò spesso alla notte delle murene. Quando si affacciava dal promontorio a picco sul mare della Gaiola, e sentiva le onde frangersi sulle spaventose caverne di tufo, l'imperatore provava una strana inquietudine. Forse, ripeteva a sé stesso, non avrebbe dovuto accettare il dono di Vedio Pollione: Pausilypon era diventata la sua dimora, la sua seconda pelle, la sua ossessione.

APPROFONDIMENTI
La notte delle murene e il segreto di Pausylipon che riaffiora dal passato
Il Centro Direzionale di Napoli e le paludi della leggenda
La fossa dell'Uomo Lupo e Zì Michele nei guai: storia di una leggenda nera

Lo scandalo che aveva fatto seguito alla notte delle murene (vedi Uovo di Virgilio di domenica scorsa) non aveva dissuaso il crudele Vedio dal nutrire ancora sentimenti di riconoscenza per il suo ex protettore; la rabbia per l'inglorioso epilogo di quel banchetto era svanita in fretta e il possidente, devoto fino alla fine, non smise mai di dedicare a Ottaviano Augusto opere e doni che questi considerava ora alla stregua di attenzioni moleste, ma delle quali tuttavia non seppe, o forse non volle, liberarsi.

Pollione aveva stabilito che alla sua morte la dimora che «dava tregua agli affanni» andasse in eredità proprio ad Augusto, con un lascito testamentario in piena regola. Quella di Trentaremi non fu l'unica dimora lasciata da Vedio Pollione all'imperatore: l'uomo che ebbe in dono Pausilypon ora possedeva anche, all'Esquilino, un palazzo che - scrisse Ovidio nei Fasti - «era da solo una vera e propria città, e occupava tanto terreno che, in paragone, ne racchiudono meno vari castelli entro le proprie mura». Ventidue anni prima della nascita di Cristo, qui erano stati ricevuti i principi giudei Alessandro e Aristobulo, figli di Erode; adesso, alla morte di Vedio Pollione, anche questo bene era destinato a finire nelle mani dell'imperatore. Tanta magnificenza parve però di cattivo esempio ad Ottaviano Augusto, che fece radere al suolo il palazzo e al suo posto decise di innalzare un monumento pubblico: il portico dedicato alla sua terza moglie, Livia Drusilla.

Augusto accettò invece il legato di Pausilypon, e all'indomani della morte di Vedio Pollione ne divenne il signore, unico proprietario del grandioso edificio a picco sul mare. L'imperatore ormai sessantenne vi si recava spesso - quasi sempre solo - e nell'indolenza di quei tramonti si perdeva a osservare il paesaggio straordinario del Golfo, la valle florida e verdeggiante, gli isolotti di tufo sferzati dalle onde.

La sua proprietà si estendeva per ben nove ettari, punteggiati di autentiche gemme architettoniche. Tra queste, l'imponente teatro dove Vedio allestiva sontuose feste e rappresentazioni: con tredici ordini di sedili nella cavea e altri sei in quella media, poteva contenere fino a duemila persone. Gli architetti del vecchio dominus lo avevano costruito, secondo una tecnica tipica dei greci, sfruttando il declivio naturale della collina; sullo sfondo, una grande vasca rettangolare era destinata agli spettacoli acquatici e sul versante opposto Ottaviano - un tempo il primo invitato a ognuno di quegli spettacoli - ammirava lo stupefacente odeion coperto, destinato agli spettacoli di musica e di poesia, con la sua piccola cavea posizionata proprio di fronte al teatro grande. A oriente della villa d'ozio stava il sacrarium, il ninfeo a occidente; e poi i giardini, i terrazzamenti, i vigneti, le terme e le grandi peschiere dove Pollione allevava le murene giganti. Proprio i luoghi al centro delle recenti e proficue ricerche condotte dagli archeologi dell'Università Orientale, sotto la direzione scientifica di Marco Giglio.

Perso in quell'otium, tuttavia, Augusto sentiva dentro di sé il peso di una maledizione.
Pensava soprattutto a sua figlia, a Giulia un tempo adorata e divenuta adesso il suo assillo e tormento, un pensiero incessante. Giulia ora in esilio, lontana dal mondo e dagli uomini; Giulia bella, colta, intelligente e scaltra, che il padre aveva voluto dare in sposa all'erede Tiberio. Mai decisione si era rivelata più scellerata, mai matrimonio era stato più sventurato: per sposare Giulia, Tiberio aveva divorziato da Vipsania Agrippina, la figlia di primo letto di Agrippa che egli amava con tutto il cuore. Da Giulia Tiberio ebbe poi un figlio che morì durante l'infanzia, facendo divampare tra i coniugi un odio che sopravvisse anche al divorzio.

Dopodiché, Giulia si perse tra dissolutezze e festini; Tiberio scappò a Rodi per allontanarsi da quella suburra infida che era diventata Roma. Di tutto ciò l'imperatore - che ora innanzi al mare di Trentaremi, ricordava e piangeva - soffrì fino quasi a impazzire; accusò la figlia di aver complottato contro la sua stessa vita, di aver tessuto la trama di oscure manovre; ne denunciò la vita dedita al vizio e ai piaceri illegali, e arrivò a pretenderne l'arresto e l'esilio a Pandataria - oggi Ventotene - senza uomini e senza vino. Unica concessione, la compagnia della madre Scribonia.

Anni e anni di sofferenze e di solitudine desolata: come poteva un padre concepire l'idea di condannare la propria figlia all'oblio? L'esilio di Giulia causò ad Augusto rimorso e rancore, rabbia cieca verso se stesso; e per tutti gli anni che gli restarono da vivere, a quanti osassero chiedergli delle sventure della sua famiglia rispose citando l'Iliade: «Vorrei essere senza moglie, o essere morto senza figli».

Memorie di vite passate. Se Napoli è città di miti e leggende, la villa di Vedio Pollione, nella punta più estrema del promontorio, è la porta d'ingresso nel mito e nella leggenda. Come la leggenda di Virgilio Mago. Anche l'autore dell'Eneide frequentava la villa sul mare di Pollione. I suoi discepoli, per ascoltarlo, arrivavano da ogni parte di Napoli e dei Campi Flegrei. Spesso il Maestro li radunava nel grande teatro di Vedio; altre volte li convocava in riva al mare, davanti alle grotte che un giorno avrebbero preso il suo nome. Il poeta mago raccontava loro degli enormi rettili che vivevano nel sottosuolo di Napoli, che si nutrivano di vecchi, di donne e bambini. E di come li avesse affrontati e annientati. Raccontava della schiera di demoni al suo servizio e di come, con il loro aiuto, avesse prosciugato paludi pestifere e maleodoranti. Spesso in prima fila, ad assistere a quelle lezioni, v'era anche il nipote di Augusto, il giovane Marco Claudio Marcello.

La Scuola di Magia di Virgilio sorgeva in prossimità della Gaiola, che prende il nome dal latino Caveola proprio per le numerose grotte che vi si trovano. Sono ancora molti, in quest'area, i tesori del passato da riportare alla luce, come sanno bene gli archeologi impegnati da anni nella ricognizione dei fondali. Poche decine di metri, invece, separano la terraferma (e l'antica dimora imperiale) alle piccole isole della Gaiola, un tempo collegate da un arco di roccia e ancora oggi divise da una fenditura su cui si protende un ponticello di ferro. Qui sorgeva in passato un tempio dedicato ad Afrodite Euplea, protettrice dei naviganti che doppiavano il Capo di Posillipo. Un angolo di paradiso che i cristiani avrebbero profanato, scatenando l'ira della stessa dea, che da allora vieterebbe agli uomini un'esistenza tranquilla.

(2 / fine)

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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