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Maestosa, selvaggia via dai Caracciolo a Bellavista: la strada nata sulla lava

Viaggio a Foria, dove i palazzi hanno radici antiche e storie di nobiltà alle spalle

Una panoramica di via Foria
Una panoramica di via Foria
di Vittorio Del Tufo
Articolo riservato agli abbonati
Domenica 26 Marzo 2023, 10:00
6 Minuti di Lettura

«Fiume di pietra, bastimento colossale ancorato tra rive di silenzio!»

(Matilde Serao)

* * *

Se c'è una strada che reca fin nel percorso, nel tracciato urbanistico, le stigmate del suo passato, questa strada è via Foria. Un nome (recente) che riporta a un tempo lontano, quando il destino della città era scritto in larga parte sull'acqua: il tempo in cui via Foria, la «maestosa, selvaggia via» cantata da Anna Maria Ortese, era un collettore di acque che scendevano dalla collina di Capodimonte. Quell'acqua era la lava dei Vergini e per secoli ha allagato la zona a nord ovest della città interrando case, ipogei e catacombe. Uno spettacolo terribile che costringeva gli abitanti a scappare, oppure a cercare riparo ai piani alti delle case passandosi a gran voce l'allarme - a lava, a lava - quando la pioggia si faceva intensa e faceva prevedere l'arrivo della piena.

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«Quando ero piccolo - ricorda Clemente Esposito, grande conoscitore del sottosuolo e decano degli speleologi napoletani - e venivo a Napoli con mio padre, che andava in pretura o al tribunale, spesso mi toccava aspettarlo in macchina. Non mi annoiavo, mi distraevano centinaia di operai che, a Piazza Cavour o a Porta Capuana, spalavano fango e lo caricavano su carrette trainate da asini, cavalli e buoi». Le acque, attraverso il vallone San Rocco, via Stella, via Fontanelle e via Miracoli, confluivano nella Sanità, fino a piazza Cavour e, appunto, via Foria.

A lava, a lava. Quel torrente ingrossato da tanti ruscelli minori che scendevano da Capodimonte, dai Colli Aminei, dai Cristallini, dallo Scudillo, da Miradois, prendeva, quando arrivava a Foria, «tutta la maestà e l'imponenza di un fiume irato che non trovava ostacoli e tutto abbatteva nel furibondo suo corso», come scrisse de La Ville sur-Yllon in un celebre articolo comparso sulla rivista «Napoli nobilissima» e dedicato a Foria, alla lava dei Vergini e al Largo delle Pigne, l'attuale piazza Cavour.

Un destino scritto sull'acqua. Tra i valloni oggi colmati da via Foria (ma anche da piazza Cavour, via Monteoliveto e via Medina) scorreva un tempo anche il mitico Sebeto. Dal Monte Somma le acque sorgive scorrevano nelle campagne di Napoli, e sboccavano dopo un corso lento e tortuoso nel mare. L'abbondanza delle sue acque convinse le autorità greche (e poi quelle romane) a canalizzarle, seppur in parte, in quell'acquedotto della Bolla che Guglielmo Melisurgo definì nel 1889 «l'opera più antica e meglio conservata dell'antichità napoletana». Il 15 novembre 1343 un terribile maremoto sconvolse la città; il fiume, quel giorno, si sarebbe «ingrottato» e avrebbe continuato a raggiungere il mare attraverso il sottosuolo, ipotesi avvalorata dalla presenza di numerosi pozzi dislocati tra via san Sebastiano e la chiesa di San Pietro Martire, presso l'Università.

Memorie di un tempo scomparso. Dove oggi c'è la Galleria Principe, c'erano un tempo (sin dalla fine del 500) le Fosse del Grano, costituite da varie cavità (le fosse, appunto) utilizzate per conservare le derrate alimentari. Il declino delle Fosse, che si estendevano fin dietro i conventi di San Giovanni Battista delle Monache e di Santa Maria di Costantinopoli, cominciò ai primi del XIX secolo, con l'abolizione nel 1804 del monopolio annonario, così la struttura fu adibita come prigione, deposito e caserma militare.

Via Foria fu particolarmente cara ad Annamaria Ortese, che le dedicò il racconto Grande via, pubblicato da Adelphi nella raccolta L'infanta sepolta. «Da bambina, quando i miei anni erano così pochi, che mi bastavano a contarli le dita delle mani, io frequentavo la grande Foria con una semplicità e un abbandono che ancora oggi, ricordando, mi rendono pensierosa. Non saprei vedere con precisione quale sicuro motivo, oppure quale sentimento incalzante o irragionevole inclinazione spingessero la giovane persona che io ero a fare di quella strada, che come un fiume disseccato attraversa la parte orientale della città, la meta, il centro preferito delle sue quotidiane passeggiate... Qualcosa più grande di me, e di cui io non potevo rendermi conto, mi portava ogni giorno su quella strada, con la medesima spontaneità con cui i venti portano le nuvole e le onde trascinano le spume e la notte conduce con sé il sonno ed i sogni. Maestosa, selvaggia via! Fiume di pietra, bastimento colossale ancorato tra rive di silenzio!».

Il nome Foria nasce da un feudo: quello dei Forino, ramo principesco della famiglia Caracciolo. Più esattamente il toponimo Foria deriverebbe da Palazzo Caracciolo di Forino, fatto costruire nel XVI secolo dai Caracciolo in prossimità delle mura aragonesi (l'attuale via Pontenuovo 21). Un palazzo con deliziosi giardini, citato anche da Carlo Celano, restaurato nel 1768. Della monumentale bellezza di un tempo sono rimasti il portale con timpano e stemma e l'androne che ripresenta lo stemma di famiglia affrescato sulla volta.

Qui i palazzi hanno radici antiche, e storie di nobiltà alle spalle. Il professor Gennaro Bellavista di Luciano De Crescenzo abitava nel palazzo Ruffo di Castelcicala, costruito nella prima metà del XVII secolo dal duca di Telese. All'interno sono presenti due cortili, chiusi sul fondo da altrettante scale aperte, sulle quali è poggiato lo stemma dei Ruffo del ramo di Castelcicala, sormontato da un mezzo cavallo rampante, che contiene il motto di famiglia: nunquam retrorsum (giammai indietreggiare). Il secondo cortile è invece l'ambientazione dei film di Bellavista.

Frammenti di una grandezza passata. Antiche e nobili dimore che punteggiano il tracciato di una strada la cui storia è intimamente connessa non solo con le acque, ma anche con le porte della città. Con l'ampliamento delle mura a nord, voluto da Pedro de Toledo nel XVI secolo, una porta venne risistemata (la porta di Costantinopoli) mentre un'altra, antichissima, venne spostata (Porta San Gennaro). La Porta di Costantinopoli venne sistemata all'inizio di Via Costantinopoli e lì è rimasta, senza ulteriori traslochi, fino alla demolizione, avvenuta nel 1852. Porta San Gennaro, la più antica della città, è menzionata già in documenti risalenti all'anno 928, quando era dilagata la paura dei Saraceni che avevano già distrutto la città di Taranto. Oggi è collocata di fronte a Piazza Cavour ed è inglobata all'interno di un complesso edilizio successivo. Dopo l'epidemia di peste del 1656, come ex voto, vi fu aggiunta un'edicola affrescata da Mattia Preti, oggetto di un recente restauro a cura dell'associazione Friends of Naples.

Che storia, quella di Porta San Gennaro. Era il 1656, l'anno del Grande Flagello. Spavaldo, vendicativo, temerario, in fuga da Roma dove aveva ferito con la spada un critico d'arte reo di aver criticato i suoi affreschi di Sant'Andrea della Valle, Mattia Preti raggiunse la città devastata dalla Peste e venne subito bloccato a un varco d'ingresso da una guardia armata. Supplicò la sentinella di lasciarlo passare, ma la guardia gli puntò l'alabarda sul petto e gli intimò di tornare indietro. A quel punto, almeno stando a quanto raccontò Bernardo De Dominici, storico e biografo dei più grandi pittori, Preti afferrò un pugnale e uccise la sentinella, forse memore dei suoi trascorsi in quel famoso sodalizio di pittori spadaccini passato alla storia come Compagnia della Morte. Oltrepassato il posto di blocco venne arrestato e condannato alla pena capitale, ma il Tribunale della Vicaria decise di commutargli la pena obbligandolo a dipingere quadri votivi su tutte le porte della città, come ex voto. Di quegli affreschi del pittore assassino, salvato dal suo genio, è rimasta solo una traccia sopra l'arco della porta di San Gennaro. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA
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