L'urlo di Giuditta e le memorie nere di Castel Capuano

L'urlo di Giuditta e le memorie nere di Castel Capuano
di Vittorio Del Tufo
Lunedì 25 Giugno 2018, 10:44
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«La testa colle proprie sue mani la donna fece bollirla, acciò si sfigurasse» (Carlo De Nicola, Diario napoletano).

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Un'antica leggenda racconta che ogni 19 aprile, nei corridoi del vecchio tribunale di Castel Capuano, si odano lamenti, strepiti e urla. La fantasia popolare ha attribuito da tempo un volto e un nome all'anima dannata che si aggirerebbe tra le ombre dell'antico maniero. È Giuditta Guastamacchia, la sposa fedifraga che nell'aprile del 1800 fu processata e giustiziata dalla Gran Corte della Vicaria per aver assassinato il giovanissimo marito e fatto scempio del suo cadavere, con la complicità del suo amante (un prete!) e di suo padre. Il cranio di Giuditta, descritta dalle cronache dell'epoca come una donna bellissima e malvagia, è uno dei reperti anatomici conservati nel complesso di Santa Patrizia, in via Armanni, dove si trova il Museo di Anatomia Umana fondato nel 1819. Un piccolo scrigno scientifico e culturale poco conosciuto dai napoletani, eppure ricco di preziose testimonianze del passato - secoli di ricerca scientifica sul corpo umano - ricostruite grazie ai reperti donati dai più famosi anatomisti del mondo. Un «luogo della memoria», dunque, tornato alla luce nel 1997 dopo lunghi anni di oblio.

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La discesa negli inferi di Giuditta comincia alla fine del 700, quando giovanissima, con un figlio piccolo da accudire, si ritrova sola e povera in canna dopo la morte di suo marito, giustiziato per aver frodato il Regno. Dopo un breve periodo trascorso nel convento di Sant'Antonio alla Vicaria, Giuditta intreccia una relazione con un sacerdote, don Stefano D'Aniello, che per salvare le apparenze spaccerà come zio. Ed è proprio lo «zio» prete, allo scopo di allontanare i sospetti, a far venire a Napoli dalla Puglia un suo giovane nipote di appena 16 anni, convincendolo (o costringendolo) a sposare la vedova. La situazione precipita quando il ragazzo, scoprendo di essere stato truffato, decide di rendere nota la tresca di sua moglie con il religioso, facendo scoppiare lo scandalo. Giuditta elabora così il piano criminale. Fa credere al padre di essere stata malmenata e derubata dal marito, poi coinvolge l'amante-prete nel complotto, convincendolo a partecipare al delitto. Con uno stratagemma, il giovane e sventurato marito di Giuditta viene attirato in casa della donna e strangolato. Poi l'assassina decide di sbarazzarsi del cadavere facendolo a pezzi, con l'aiuto di due complici, un barbiere e un chirurgo. Il povero ragazzo viene così maciullato e i suoi resti infilati in un sacco, per essere dispersi nel bosco, in campagna e a mare. «Pensarono che ammazzandolo in casa, sfigurandolo, e facendolo in pezzi si sarebbe potuto occultare il delitto, ed attribuirsi ai soliti rei di Stato, per cui avevano anche pensato di attaccare su qualche pezzo del cadavere un cartello che ciò indicasse» (Carlo De Nicola, Diario napoletano, aprile 1800).
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Il piano fallisce perché uno dei complici di Giuditta, il barbiere, si fa beccare dalle guardie reali mentre cerca di disfarsi del macabro bottino. E, dopo un lungo interrogatorio - sapete come sono loquaci i barbieri - parla, parla, parla, e confessa tutto facendo i nomi dei suoi complici. Giuditta Guastamacchia prova a fuggire, ma la fuga sua termina a Capodichino. Il tribunale della Vicaria condanna tutti a morte per impiccagione, tranne lo zio prete, che se la cava con l'ergastolo per non aver partecipato materialmente all'omicidio del nipote. Per Giuditta, invece, c'è un surplus d'orrore.

Dopo l'impiccagione, testa e mani le furono amputate e messe in mostra - quale monito al popolino - a una delle finestre della Vicaria. La sua anima nera, da allora, non trovò mai pace; e una vecchia leggenda di Castel Capuano narra che ogni anno, nell'anniversario del suo supplizio, lo spettro di Giuditta ricompaia nelle buie sale dell'antico maniero.

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Fin qui la storia di Giuditta Guastamacchia, sposa maledetta, il cui ricordo rivive non solo nelle antiche leggende di Castel Capuano ma anche in quel luogo incredibile che è il museo anatomico di Napoli, un autentico pozzo di San Patrizio per gli studiosi di fisiognomica criminale, uno dei primi tre al mondo per numero e qualità delle collezioni. Il museo, oltre a tantissimi testi antichi, conserva 560 crani dal I secolo a. C. all'800 (alcuni provenienti dagli scavi di Pompei, Ercolano, Pontecagnano), cere anatomiche risalenti all'epoca di Carlo di Borbone, mostruosità fetali conservate in formalina e alcool, 417 preparati tra cui scheletri essiccati. Per secoli Napoli è stata all'avanguardia non solo negli studi di medicina (e basta visitare il museo e la farmacia storica degli Incurabili per rendersene conto) ma anche in quelli di anatomia. È un primato di cui dobbiamo essere fieri.

Aperto il martedì, il giovedì e il venerdì dalle 10 alle 13 (per informazioni 081-5667747) il museo anatomico è un luogo di fondamentale importanza scientifica, storica e anche artistica, fortemente voluto dal Museo Universitario delle Scienze e delle Arti (Musa) e dal rettore della Sun Giuseppe Paolisso. Tra i reperti più impressionanti vi è un feto calcificato mai partorito, rimasto nel corpo della madre per ventotto anni e lungo una decine di centimetri, che fu scoperto, come confermano alcuni testi scientifici del 1658, solo quando la donna morì (vedi anche Napoli insolita e segreta, di Valerio Ceva Grimaldi e Maria Franchini). I teschi di Giuditta Guastamacchia e di altri giustiziati celebri della Vicaria contengono ancora i segni degli studi antropologico-criminali effettuati dai professori Giambattista Miraglia e Gennaro Barbarisi, che vi indicarono le aree cerebrali secondo uno schema di tipo lombrosiano. Tra gli altri reperti, alcuni bisturi di epoca romana e le famose «calcinazioni» effettuate dallo studioso Giuseppe Albini, che durante un'epidemia nel 1880 fu invitato dal ministro dell'Interno a trovare un'alternativa al rischioso seppellimento e alla cremazione dei cadaveri. Nel museo sono esposte due teche in vetro e ottone contenenti una il corpo essiccato di un neonato e la seconda il busto di una giovane donna, entrambi ottenuti attraverso questa tecnica. E altre «mostruosità fetali» per un totale di 153 esemplari conservati in formalina o in alcol. Tra i «pezzi» conservati al museo anatomico spiccano quelli di Efisio Marini, misteriosa e poliedrica figura di scienziato, l'uomo dei Cadaveri Immortali.

Le ricerche nel campo della conservazione dei cadaveri e delle parti anatomiche valsero allo scienziato Efisio Marini (Cagliari 1835 - Napoli 1900) l'inquietante soprannome di Pietrificatore. Marini, studioso di medicina e storia naturale, elaborò un metodo del tutto originale di mummificazione che permette di pietrificare i cadaveri senza effettuare tagli o iniezioni sugli stessi, ma anzi conservando il colore e la consistenza originali dei corpi. Cominciò operando su un braccio umano, poi a mano a mano estese i suoi esperimenti all'intero corpo. Marini morì a Napoli l'11 settembre del 1900, portando nella tomba il segreto del suo metodo di imbalsamazione. Fino all'ultimo fu circondato da un alone sinistro creatosi intorno a lui grazie anche alla propria dimora, disseminata di reliquie anatomiche di persone e animali. Dilapidò tutti i suoi averi nelle ricerche e fu ossessionato dalla paura che il proprio segreto gli venisse rubato. Tra le opere di Marini conservate nel museo anatomico c'è anche un lugubre tavolino ottenuto con sangue, cervello, bile e altre parti di corpo umano, pietrificate, sormontate dalla mano di una ragazza, pietrificata anch'essa.
 
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