La memoria perduta
delle acque di Napoli:
«Le lacrime di una città»

La memoria perduta delle acque di Napoli: «Le lacrime di una città»
di Vittorio Del Tufo
Domenica 28 Febbraio 2021, 10:37 - Ultimo agg. 1 Marzo, 09:33
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«Tu sei la vita e sempre, sempre fuggi»

(Gabriele D'Annunzio).

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Il Grande Vecchio del sottosuolo napoletano, il decano degli speleologi Clemente Esposito, ci dà appuntamento davanti alla Bocca del Leone, a Mergellina, dove si racconta che in tempi lontani un principe andasse a trovare la sua amata portando con sé un mansueto leone. Si fa una certa fatica, oggi che da quella bocca non esce nemmeno più l'acqua a pressione dell'acquedotto cittadino, immaginare che una volta questa fontana era alimentata da una sorgente propria. Era l'Acqua del Leone, una delle mitiche acque sorgive della città.

Memoria che rischia di andare perduta, nonostante gli sforzi di chi si adopera per mantenerla viva. Fu Ferdinando IV, che desiderava riattare un vecchio «casino di pesca» per trasformarlo in un meraviglioso palazzo affacciato sul mare, a far costruire la Fontana del Mergoglino, proprio nel punto dove sgorgava quest'acqua talmente fresca e pregiata da essere scelta per l'approvvigionamento della famiglia reale, che ne andava ghiotta. Negli anni 80 si scoprì che la sorgente traeva origine da una frattura del muro di tufo alle spalle della piazzetta, nei pressi della clinica Mediterranea, dove inizia il lungo tornante di via Orazio. «Ricordo quando arrivai armato di machete per aprirmi un corridoio fin sotto la parete di tufo», ci dice Esposito, cacciatore di segreti nei labirinti di pietra della città.

Per quanto ci sforziamo di ingiuriarlo, il passato continua a parlarci. E, tenace, sopravvive alle ingiurie del tempo e alle picconate della storia. Disegnare una mappa delle antiche acque sorgive della città equivale a comporre una toponomastica della memoria, la nostra memoria di pietra e lava. Nei mesi scorsi

L'Uovo di Virgilio (22/11/2020) ha ricordato la grande epopea del Monte Echia e dell'acqua che sgorgava dalle sue pareti. Ma l'acqua suffregna delle mummare, dal nome delle anfore di creta con due manici utilizzate per prelevarla, è solo una delle antiche sorgenti di Napoli, la città degli undici colli: in passato quasi ogni rione era provvisto di almeno un'acqua sorgiva, e a Santa Lucia, nella zona del Monte Echia, ce n'erano addirittura due.

Quell'acqua racconta la nostra storia. Scrisse Matilde Serao nelle sue «Leggende napoletane» che le fontane di Napoli sono lacrime: «Quella di Monteoliveto è formata dalle lagrime di una pia monachella che pianse senza fine sulla Passione di Gesù; quella dei Serpi sono le lagrime di Belloccia, serva fedele innamorata del suo signore; quella degli Specchi è fatta delle lagrime di Corbussone, cuoco di palazzo e folle di amore per la regina cui cucinava gli intingoli; quella del Leone è il pianto di un principe napoletano, cui unico e buon amico era rimasto un leone che gli morì miseramente; e quella di fontana Medina sono le lagrime di Nettuno, innamorato di una bella statua cui non arrivò a dar vita».

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Tra le più celebri acque sorgive della città v'era quella del convento di San Pietro Martire, nei pressi del Porto. Abbondante, pura, freschissima, alimentava il pozzo nel chiostro del convento di San Pietro Martire, oggi sede della facoltà di Lettere e Filosofia della Federico II. Nel Cinquecento il poeta Giambattista del Tufo la definì «più chiara assai d'ogni cristallo o vetro». Anche Carlo V ne andava ghiotto, al punto che prima di lasciare Napoli fece rifornire le sue galee proprio dell'acqua di questo convento. L'acqua di San Pietro Martire - spiega Clemente Esposito, che alle acque sorgive ha dedicato un capitolo del suo lungo lavoro di ricerca dedicato al sottosuolo di Napoli - aveva il pregio di non corrompersi mai anche se conservata per lungo tempo, per cui veniva attinta dai marinai per l'approvvigionamento delle navi. Sgorgava dalle fontane di vico Tre Cannoli, stradina scomparsa in seguito ai lavori del Risanamento che portarono alla risistemazione dell'attuale via Nuova Marina.

A monte del corso Umberto, all'altezza dell'attuale vico Costanzi, in zona Orefici, arrivava l'Acqua di San Marcellino, chiamata così perché la sorgente si trovava sotto il monastero di San Marcellino; aveva invece una portata più modesta l'acqua sorgiva che alimentava i chiostri di Santa Maria la Nova, nella zona del Cerriglio tanto cara a Caravaggio. Altra sorgente ancora è quella che alimentava un tempo la fontana detta delle Quaquiglie perché l'acqua usciva da due mascheroni in una specie di conchiglia (in volgo quaquilia) e si trovava nella zona di Portosalvo, e precisamente nella strada che un tempo prendeva il nome di Enrico De Guzman conte di Olivares, viceré di Napoli dal 1595 al 1599.

Toponomastica sventrata dal piccone del Risanamento, in questo caso per far posto alle attuali via Cristoforo Colombo e Alcide de Gasperi.

Si chiamava Acqua di Santa Barbara quella che animava i pozzi, oggi scomparsi, nella zona di Piazza Francese, anch'essa a ridosso dell'antica via Conte Olivares, poi chiamata strada del Piliero. Fantasmi del passato, come i chiostri dell'antico convento di San Diego, serviti anticamente dall'Acqua dello Spedaletto, chiamata così per la presenza nell'area di un piccolo ospedale dedicato ai «poveri gentiluomini». Siamo all'inizio di via Medina, proprio di fronte alla Questura, mentre dobbiamo spostarci a Santa Lucia per trovare le tracce di ben due acque sorgive: quella, nobilissima e ferrata, della sorgente di Monte Echia, e quella che anticamente gli abitanti della contrada di Santa Lucia chiamavano Acqua dolce, per distinguerla dalla prima.

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Gli undici colli di Napoli (Monte Echia, San Martino, San Potito, Materdei, Capodimonte, Sant'Eframo, Capodichino, Poggioreale, Camaldoli, Posillipo e Colli Aminei) sono di origine vulcanica, costituiti essenzialmente da tufo giallo ricoperto da strati di lapilli e pozzolane, e in superficie da terreno vegetale. Queste alture sono divise da profondi valloni, che nei secoli sono stati resi sempre più profondi dall'erosione delle acque scroscianti. Via Chiaia è il vallone incassato tra Monte Echia e San Martino; via Francesco Saverio Correra (il Cavone) è una gola tra San Martino e San Potito; via Salvator Rosa divide San Potito da Materdei e insieme a via Correra raccoglieva le acque e le arenarie provenienti daCamaldoli e Arenella; via Fontanelle divide Materdei da Capodimonte; salita Moiariello divide Capodimonte da Sant'Eframo; via Michele Tenore separa Sant'Eframo da Capodichino; la Calata Capodichino separa Capodichino da Poggioreale. Dai Colli Aminei le acque, attraverso il vallone San Rocco, via Stella, via Vergini, via Fontanelle, via Miracoli e altre strade o valloni confluivano nella Sanità, fino a piazza Cavour e via Foria, dando origine alla cosiddetta «lava dei Vergini» che, per secoli ha allagato la zona a nord-ovest della città, interrando case, ipogei e catacombe. È la memoria dell'acqua.

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«Acque animate, popolate e protette da ondine, naiadi, nereadi, eleadi, altre ninfe e altre deità. Presenze mitiche e reali, sirene impiantate a guardia dei passaggi preziosi, che custodiscono porte sotterranee tra mondi. Donne-pesce, donne-alate, collegamento tra cielo e terra, viscere di fuoco e di acqua»

(Agnese Palumbo, in Il mare che bagna Napoli, di Sergio Siano). 

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Come gli uomini e le città, che rischiano di smarrirla, anche l'acqua possiede una sua memoria, studiata a lungo da generazioni di chimici e di geologi. La memoria dell'acqua è la sua proprietà di mantenere un «ricordo» delle sostanze con cui è venuta in contatto. A Napoli, città dalla storia ultramillenaria, questa memoria è intimamente connessa alla grande epopea degli acquedotti. Le acque sorgive entrarono a far parte della vita dei napoletani fin dal periodo greco. Il popolo le divinizzò attribuendo ad esse, in alcuni casi, poteri magici. In epoca romana la città si arricchì di impianti idrici, che svolsero l'importante compito di portare a Napoli l'acqua da sorgenti lontane o dai fiumi.

Il più antico acquedotto napoletano è quello della Bolla: ha fornito l'acqua alla città per più di duemila anni. Mitico condotto greco e poi romano, completamente sotterraneo, partiva dalle sorgenti della Bolla, ai piedi del Vesuvio (nel territorio dell'attuale Volla) e penetrava in città attraverso Porta Capuana, diramandosi poi in più rami e distribuendo l'acqua dal Mercato alla Dogana, dall'Annunziata a Cappella Vecchia. Quando, nel 536, il grande Belisario, comandante dell'esercito di Giustiniano, strinse d'assedio la città per cacciare i Goti, lo fece aprendosi un passaggio attraverso il percorso dell'acquedotto. Molti secoli dopo, nel 1442, Alfonso d'Aragona entrò nella città strappata agli Angioini sfruttando a sua volta lo stratagemma dell'acquedotto. Tanto Belisario, il più coraggioso tra i Bizantini, quanto, novecento anni dopo, il Magnanimo aragonese, non riuscirono ad evitare che l'acqua di Napoli - la nostra memoria - si macchiasse di sangue.

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