Mater Camorra,
il romanzo criminale
che infiammò la città

Mater Camorra, il romanzo criminale che infiammò la città
di Vittorio Del Tufo
Domenica 6 Settembre 2020, 18:00 - Ultimo agg. 7 Settembre, 15:32
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«Don Gennaro o basista me pareva
nu signore e carrozza: e cummannava.
A juorno fatto, po', se travesteva
e mmiezo a' meglia gente se mmiscava»

(Ferdinando Russo, O basista)

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La mattina del 6 giugno 1906, in un appartamento al terzo piano di via Nardones 95, una domestica, Felicetta Carusio, scoprì il corpo senza vita di Maria Cutinelli, detta a surrentina, moglie di un basista della camorra, Gennarino Cuocolo. La donna è nuda, distesa sul letto, ha il corpo crivellato da undici ferite vibrate con un coltello da cucina a lama triangolare. All'alba di quello stesso giorno, in una località deserta, Contrada Calastro a Torre del Greco, alcuni spazzini scoprono il cadavere di un uomo con il capo massacrato da colpi di bastone, sul corpo almeno quaranta coltellate e stilettate: è il marito di Maria, Gennarino. Aveva trascorso la sera del 5 a cena con una comitiva di camorristi, tra i quali il capintesta Erricone Alfano, nella trattoria Mimì a mare.
Non è un delitto qualsiasi. È l'incipit di un romanzo criminale che scuote la città, rivelandone i luoghi più oscuri, il sottobosco maleodorante e nero, nel quale si aggirano questurini e preti, confidenti e guappi, avvocati, spicciafaccende e giornalisti, carabinieri senza scrupoli infaticabili costruttori di prove false: il processo che ne deriverà (e che si svolse tra il 1911 e il 1912 a Viterbo) portò alla sbarra numerosi esponenti della camorra napoletana, ebbe un'enorme risonanza mediatica e si concluse con numerose, pesanti condanne. Fu il primo maxi-processo nella storia giudiziaria italiana dopo quelli sommari contro i briganti. Ma gli storici sono concordi nel ritenere che fu viziato da un numero impressionante di irregolarità e da una vasta e sistematica opera di manipolazione delle prove.

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L'indagine, condotta in un primo momento dalla questura, porta all'arresto di Errico Alfano, più noto come Erricone, capo riverito e indiscusso della camorra, di suo fratello Ciro, del maestro elementare (e usuraio) Giovanni Rapi, di Gennaro Ibello e Gennaro Jacovitti, manovali della camorra. È il delegato della Questura, Ventimiglia, a notificare il provvedimento: «Don Erricò, dovete scusarmi se vi disturbo, non è colpa mia, io faccio il dovere mio, voi fatemi il piacere di alzarvi, di venire un poco con me». La polizia sospetta che Gennaro sia stato ucciso perché ritenuto un infame, un traditore. Ma il delitto rimane irrisolto e, in mancanza di prove, i sospettati vengono rilasciati. Il caso passa così ai Carabinieri reali, con un intervento che, quasi certamente, fu voluto dalla stessa Casa Savoia, sollecitata dal cugino del re, Emanuele Filiberto di Savoia, che a quel tempo risiedeva nel palazzo reale di Capodimonte e guardava con fastidio l'espandersi della criminalità a Napoli e nel suo hinterland.
Gennarino Cuocolo è la pecora nera di una ricchissima famiglia di commercianti. È, soprattutto, un basista della camorra, affiliato in qualità di sciammerio, o guappo signorile. Assieme alla moglie, ex prostituta, don Gennaro o basista lavorava per individuare ricche abitazioni da derubare, affidandone la realizzazione ad esecutori professionisti. Non davano sospetti, Gennarino e Maria: si erano specializzati nell'adocchiare i siloca, gli appigionasi appesi ai portoni. Lei, soprattutto, si metteva in ghingheri per attirare la simpatia dei padroni di casa. Poi, a colpo effettuato, marito e moglie si spartivano il bottino con i caporioni. Fino all'alba rosso sangue di quel 6 giugno 1906.

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Al delitto e al processo Cuocolo lo scrittore napoletano Luigi Compagnone dedicò un piccolo libro, Mater camorra, che occhieggiando a Sciascia, e a Pasolini, illustra in modo delizioso, e irriguardoso, il costume italiano dell'epoca e in speciale modo quello napoletano, con la caratteristica di vivere la tragedia come spettacolo teatrale o eterno carnevale. Non è cambiato molto da allora. Diceva Compagnone che il delitto Cuocolo, e il lungo e drammatico processo che ne seguì, sarebbero piaciuti molto a Guy de Maupassant. All'autore di Bel Ami sarebbe piaciuta innanzitutto via Nardones, che primi anni del 900 era un nero, lungo budello a ridosso di via Toledo. Via Nardones che in realtà si dovrebbe chiamare via Mardones, «perché tale - come ricorda Gino Doria nel suo saggio di toponomastica storica, Le strade di Napoli, era il cognome del gentiluomo spagnolo che ivi possedeva le sue case», ovvero il magistrato don Lope Mardones. Via Nardones con la sua «infima borghesia, al limite della plebe». Con il suo bordello del civico 98 («Era un bordello perbene, la marchetta costava dieci lire. Il 98 fu un insegna, un emblema. La gente della strada ne andava fiera»). A Maupassant, ancora, sarebbero piaciuti Gennarino Cuocolo e sua moglie Maria («Fino al 6 giugno del 1906, scrive Compagnone, la candida gente di via Nardones diceva che belli, i due Cuocolo. Stima, rispetto, si esternavano e si esternano a Napoli con l'aggettivo bello. Se invece uno non merita stima, è brutto»).

Allo scrittore francese sarebbe certamente piaciuto il cappellano del cimitero di Poggioreale, don Ciro Vittozzi, compare del capocamorra. Ma forse più di tutti, gli sarebbe piaciuto l'avvocato e giornalista Alessandro Lioy, ammiratore fanatico di Emile Zola per gli articoli scritti in difesa del capitano Dreyfus, innocentista della prima ora, strenuo oppositore dei metodi irrituali delle indagini, delle prove truccate e dei metodi alquanto sbrigativi del capitano dei carabinieri Carlo Fabbroni e della sua squadra, i «cosacchi». Il famigerato Fabbroni, uomo di Stato, ordì una vera e propria trama di manipolazione della verità, con l'obiettivo di screditare il lavoro della Questura e della Polizia, i cui vertici erano ritenuti troppo acquiescenti con i vertici della «onorata società», servendosi del primo falso pentito della storia giudiziaria italiana, Gennaro Abbatemaggio detto o' cucchieriello, che abitava in via Chiaia, subito dopo il Ponte, nei pressi dei Gradoni.

Tra i «luoghi della memoria» del delitto Cuocolo vi è certamente la Galleria Umberto, con quel Caffè Fortunio dei fratelli Giuseppone dove don Errico spende e spande, imponendo consumazioni a tutti i presenti. Perché don Errico (che si renderà latitante e verrà arrestato a New York da Joe Petrosino) è un uomo ricco, è il grande capo di Mater Camorra, che dispensa velenoso latte alla Città Madre e al suo sterminato entroterra. È in Galleria che il Mattino, che allora aveva sede nell'Angiporto ed era diretto da Edoardo Scarfoglio, tutte le sere alle 19,30 proiettava le immagini, in differita, delle udienze di Viterbo, ovviamente in muto ma con commento al megafono di un giornalista ed enorme afflusso di pubblico. Uno dei libri più completi dedicati al drammatico processo di Viterbo è La seconda guerra napoletana, scritto dall'avvocato Giuseppe Garofalo, decano dei penalisti di Santa Maria Capua Vetere e studioso di storia giudiziaria.

Per Gigi Di Fiore, giornalista del Mattino che, da storico, ha dedicato numerosi libri all'evoluzione del potere camorristico a Napoli, dopo il processo di Viterbo l'organizzazione criminale fa fatica a superare il colpo, seppure «la vecchia struttura, centralizzata e organizzata in maniera gerarchica, ha già subito, di fatto, dei mutamenti». Ed infatti, «si affermano piccoli capi di quartiere, ma manca il capintesta» (vedi Gigi Di Fiore, La camorra e le sue storie, edizioni Utet).

«Per quasi cinquant'anni - conferma Isaia Sales, studioso dei fenomeni criminali e sociologici del Mezzogiorno - la camorra non si riprese dallo sgretolamento che quel processo causò nelle sue file. Indubbiamente funzionò la repressione giudiziaria e penale. E tale repressione fu accompagnata da un'opinione pubblica largamente colpevolista (supportata dal «Mattino» e dagli altri giornali locali e nazionali) e da uno schieramento politico ampio che comprendeva anche i socialisti napoletani, (oppositori in consiglio comunale e in Parlamento) convinti di avere le prove di un rapporto organico del prefetto Tommaso Tittoni (che sarà poi ministro degli esteri) con la camorra».
Luigi Compagnone - ironico, dissacratorio, malinconico e pessimista - sosteneva che con il fallimento della rivoluzione di Masaniello, nel 600, la storia di Napoli è diventata un non-storia. Le facce che si vedono nei nostri vicoli, nelle nostre strade, nella Galleria dove don Errico Alfano mostrava lo sfregio sulla guancia sinistra come un trofeo, sono segnate da questa non-storia. E l'intera vicenda Cuocolo, il delitto e poi il processo, con il suo grumo di connivenze, è il simbolo della non-storia che ci portiamo addosso come una maledizione antica, come un trofeo sbagliato.
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