Ci mandava Picone, viaggio al termine della notte napoletana

Nel film cult di Nanni Loy la Napoli degli anni '80

Ci mandava Picone, viaggio al termine della notte napoletana
Domenica 4 Dicembre 2022, 11:49 - Ultimo agg. 11:59
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«Quanta strade che portano a niente
e quanta strada ca ancora amma fà
ciorta ca puorte chistu turmiento
nuje nun' nce stancamme maje..»
(Assaje, Pino Daniele)

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Nella città di sotto si lavano i panni sporchi della città di sopra. Si trama, si promette, si complotta, si millanta, si gioca d'azzardo, si tessono reti, si respira polvere di tufo. E si godono i vizi e gli stravizi della lunga notte napoletana. La città di sotto non riposa, non si ferma mai, è una caldaia sempre accesa, come il vecchio altoforno degli operai di Bagnoli. A volte la città di sopra e la città di sotto entrano in contatto, attraverso percorsi oscuri e labirintici, e quando accade può prodursi un corto circuito.
Oppure può nascere un capolavoro.

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La città di sotto è l'Intestino del Leviatano, che tutto ingoia, vomita, digerisce e sputa, proprio come le fogne esplorate da Jean Valjean, il fuggitivo de I miserabili, nel capolavoro di Victor Hugo. Nei primi anni Ottanta del secolo scorso la spettacolare, drammatica protesta di un operaio dell'Italsider, che si cosparge di benzina dandosi fuoco nell'aula del consiglio comunale di Napoli, segna l'inizio di un'allucinata discesa negli abissi della Città Corpo, un luogo fisico e metafisico, reale e irreale nello stesso tempo.

L'operaio che si dà fuoco come un bonzo per protestare contro il licenziamento dall'Italsider si chiama Pasquale Picone, mentre a inabissarsi nelle viscere e nei misteri della città di sotto saranno la moglie dell'uomo, Luciella, e un disoccupato che vive di espedienti, Salvatore Cannavacciuolo. Siamo tra le potenti, terribili sequenze iniziali di Mi manda Picone, il film di Nanny Loy interpretato da Lina Sastri (Luciella) e Giancarlo Giannini (Cannavacciuolo), con la partecipazione di Aldo Giuffré, Leo Gullotta, Carlo Croccolo e Marzio Honorato, uscito nelle sale nel 1983 e a distanza di quasi quarant'anni ancora attualissimo, un mix di giallo e farsa che ha segnato il debutto nel cinema di Lina Sastri e regalato agli spettatori un brivido d'autore, la splendida Assaje di Pino Daniele interpretata dalla cantante e attrice napoletana. «Anche quando indulge alla pennellata neorealista - scrisse all'indomani dell'uscita del film, sul Mattino, Valerio Caprara - il regista mantiene un piglio tra il giallo-rosa ed il vagamente surreale».

Napoli, 1983. Il sindaco è Maurizio Valenzi (lo resterà fino all'aprile di quell'anno), il capitano azzurro è Massimo Giacomini, le radio trasmettono I like Chopin dei Gazebo e Vamos a la playa dei fratelli Righeira. Le riunioni del consiglio comunale si svolgono nella Sala dei Baroni del Maschio Angioino, e i processi nei vorticosi meandri di Castel Capuano, la vecchia sede del Palazzo di Giustizia; l'ex cittadella siderurgica dell'Italsider è ancora in piena attività. Ripercorrere oggi i luoghi di Mi manda Picone, che racconta con dolente ironia una società disperata che si finge ricca e felice, con il suo sottobosco fitto di intrighi, personaggi in bilico, vite sfrangiate, equivale a compiere un viaggio nel volto oscuro e segreto della città, ma anche nei nostri luoghi della memoria. Il vero protagonista della vicenda non è il misterioso Picone, che dopo essersi immolato nel rogo scompare nel nulla, senza lasciare tracce, ma proprio il disoccupato Cannavacciuolo, splendidamente interpretato da Giancarlo Giannini, che condurrà Luciella in un mondo segreto popolato da camorristi, spacciatori, protettori e falsari, altrettante maschere di una città dalla doppia faccia, dalla doppia vita e dalla doppia morale. È tra catacombe, ospedali, papponi e pirati d'ogni risma che Loy mette in scena la Città Corpo.

Mi manda Picone non è solo il titolo del film, ma anche la magica formula che consentirà a Salvatore e Luciella di scendere, girone dopo girone, nel grottesco e onirico inferno dell'altra Napoli. È qui che si cela il mistero della scomparsa di Picone, il casco giallo che si è dato fuoco. Gli sbarramenti cedono, la città del vizio, e dei mille rivoli malavitosi, svela sé stessa e ingoia le vite dei due protagonisti.

I luoghi, si diceva. Il tribunale dove Salvatore e Luciella si recano per avere un certificato di morte presunta di Picone è il vecchio Palazzo di Giustizia di Castel Capuano, mentre la casa dove abita Luciella è in via Manzoni 92. In piazza Plebiscito, ancora invasa dalle auto, Salvatore trova, nell'abito di Picone, una vecchia giocata ai cavalli, mentre nella spiaggia di Bagnoli Salvatore e Luciella si fermano a rifiatare dopo aver appreso, durante la visita all'Italsider, che l'operaio scomparso non ha mai lavorato in quella fabbrica. Ed ecco il Palazzo dello Spagnolo, nel cuore del Borgo Vergini e di una certa Napoli spettacolare e magica, dal fascino rimasto intatto nonostante il degrado. Qui, nell'edificio malridotto e pericolante (siamo negli anni post-terremoto) che Cannavacciuolo-Giannini affitta a un gruppo di senzatetto, la scalinata a doppia rampa del 700 fa da cornice perfetta ai passi perduti dei due protagonisti. Il sontuoso palazzo - eretto nel 1738 per volere del marchese Nicola Moscati - ha fatto da set a numerosi film di successo. È stato l'abitazione di Maria Concetta, la «vergine di Napoli» esibita dal padre ai soldati americani per un dollaro a testa nel film La pelle di Liliana Cavani (1981), tratto dal celebre romanzo di Curzio Malaparte; è l'edificio dal quale un ragazzino tira un pomodoro in testa a Vittorio Gassman ne Il giudizio universale di Vittorio De Sica (1961); è il rifugio del camorrista Manomozza in Piedone lo sbirro (Steno, 1973). Il fabbricato fu detto «dello Spagnolo» quando alla famiglia che lo fece costruire, quella dei Moscati, andata in fallimento, subentrò Tommaso Atienza detto appunto lo Spagnolo. Era stato costruito nel 1738 da Ferdinando Sanfelice su incarico del marchese Nicola Moscati; il grande architetto ne approfittò per realizzare a poca distanza, per la propria famiglia, il Palazzo Sanfelice. La caratteristica dell'edificio sono le ampie scale frontali all'ingresso riccamente decorate e dette ad ali di falco.


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«Che cos'è l'amianto? L'amianto è quella cosa che, quando ci va il fuoco vicino, invece di bruciare, va in culo a me» (Mi manda Picone)


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Ci sono città a più strati, che occultano di quanto non mostrino, e si concedono al nostro sguardo solo di giorno, spesso dietro nuvole di gas cattivi, svelando a poco a poco, come la danzatrice delle Mille e una notte, i loro segreti e le loro bellezze. C'è una Napoli solare che crediamo, ma chissà se poi è vero, di conoscere bene, il traffico, il metrò affollato, le piazze da cartolina, gli sguardi tesi e le nevrosi in circolo, gli incroci labirintici di decumani e cardi, lo stadio Maradona. Poi c'è una Napoli nascosta, notturna, silenziosa. Buia. La conosciamo meno, schizza via al nostro sguardo, non si lascia afferrare. Ed ecco che dalla nebbia che avvolge i palazzi, le strade e gli uomini, all'improvviso emerge la notte. E, con la notte, misteri inconfessati e inconfessabili, storie in bilico tra realtà e leggenda, ambientate dove il giorno non arriva, nei sotterranei degli antichissimi palazzi del centro storico, dietro i muri, i porticati, i vialetti, gli alberi secolari, i sepolcri, dentro le grotte millenarie di Posillipo che sbucano a Bagnoli o chissà dove.

Non v'è alcuna concessione alla retorica, all'autoindulgenza e al buonismo nello sguardo di Nanni Loy. Ci sono invece le ombre di una città dove tutto è ambiguo, proprio come il traffichino dalle scarpe spaiate che si lascia risucchiare, al pari di Valjean, dall'Intestino del Leviatano, che tutto ingoia, vomita, digerisce e sputa.

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