Il Borgo Orefici perduto
tra Medioevo e cielo

Il Borgo Orefici perduto tra Medioevo e cielo
di Vittorio Del Tufo
Domenica 25 Ottobre 2020, 11:06 - Ultimo agg. 30 Ottobre, 17:06
6 Minuti di Lettura

«Soppesa ogni parola con il bilancino dell'orafo»

(Marco Terenzio Varrone).

* * *
A guardarla oggi, la Fontana della Pietra del Pesce, si fa fatica a immaginare le arpie che vi gettavano l'acqua.


Si fa fatica a immaginare l'obelisco al centro della vasca, ai cui lati erano scolpite splendide figure mitologiche, con una tazza alla sommità e sculture di pesci alla base. Si fa fatica, più in generale, a immaginare l'antico splendore di piazzetta Orefici, piccola gemma incastonata tra il corso Umberto e il mare, tra il Medioevo e il cielo, tra la memoria e l'oblio. 

E invece questa piazza, che sembra guardarci dal passato, ha tante storie da raccontarci. Qui settecento anni fa si stabilirono i maestri orafi insediando le loro piccole botteghe; qui ancora oggi sono racchiuse tutte le professionalità della filiera: l'incastonatore, il tagliatore, il fonditore, il lamellatore e l'ebanista. Un patrimonio storico e culturale che affonda le radici nella Napoli degli Angioini, con i suoi intrighi con i suoi commerci, e con i suoi straordinari talenti.

L'arte orafa ebbe inizio al tempo di Carlo I d'Angiò e proseguì con la regina Giovanna I, nipote di Roberto il Saggio. Ma ancora prima, nel VI secolo, nell'area oggi conosciuta come Borgo Orefici si era stanziato un gruppo di ebrei, che concentrarono le loro botteghe in questo dedalo di viuzze.

La vocazione artigiana del Borgo nacque in quegli anni; i primi maestri orafi furono francesi, e giunsero a Napoli al seguito della corte angioina. La scuola francese durò fino al tempo di Giovanna I, quando si impose una scuola di orafi locali. Nel 1347 la regina, che aveva lo sguardo lungo, concesse agli orafi napoletani di eleggere i propri rappresentanti, scegliendo fra i maestri quattro consoli con il compito di curare «gli affari dell'arte» e convocare, quando necessario, l'assemblea degli iscritti. Quello fu l'atto di nascita della Corporazione.

Così, di generazione in generazione, gli artigiani locali riuscirono a sbaragliare la concorrenza dei francesi; la loro creatività e la loro fantasia non temevano confronti. Riunendosi in Corporazione, i maestri orafi crearono una prestigiosa scuola locale, conosciuta in tutta Europa fino alla caduta del Regno: una fucina di talenti. Fino a che, nel 600, il viceré marchese del Carpio stabilì che solo nel Borgo si potesse esercitare l'arte degli argentieri e degli orefici. Una destinazione d'uso dell'intera zona che resiste tuttora.

In queste stradine strette, spesso comunicanti attraverso supportici - strettola degli Orefici, via Loggia di Genova, vico Chianche alla Loggia, vico Marina del Vino - mani esperte forgiarono gioielli e lavorarono argenti, ma anche arredi sacri come la famosa Mitra di San Gennaro.

«Per avere una grazia da San Gennaro bisogna parlargli da uomo ad uomo», diceva Totò nel film Operazione San Gennaro. Gli artigiani del Borgo Orefici avevano un dialogo incessante con il patrono di Napoli. Non solo parlavano «da uomo a uomo» con il santo ma gli regalarono anche, nel 1713, questo pezzo unico e dal valore inestimabile custodito nel Museo del Tesoro di San Gennaro, con i suoi 3694 tra rubini, smeraldi e diamanti. Il copricapo d'oro, argento e pietre preziose, eccellenza dell'arte orafa partenopea, fu realizzato nella bottega di Matteo Treglia, al quale è dedicata una targa commemorativa al centro della piazza.
* * *
Prima che don Pedro de Toledo, viceré spagnolo, vi fondasse il «Conservatorio per le vergini», un educandato femminile in cui le giovani donne venivano istruite al servizio infermieristico proprio presso il vicino ospedale, gli orafi napoletani avevano stabilito gran parte delle botteghe nei pressi della Chiesa dedicata a Sant'Eligio di Noyon, il loro patrono. Un luogo della memoria ammantato di magia e di leggenda. L'orologio con l'arco di Sant'Eligio per secoli scandì il tempo fino al 28 marzo del 1943, giorno in cui la nave mercantile Caterina Costa esplose all'interno del porto di Napoli, e una lamiera veloce quanto un proiettile trafisse l'orologio facendo fermare le lancette. Il secondo piano della struttura invece ospita una finestrina con stemmi aragonesi, dove i condannati a morte aspettavano il giorno dell'esecuzione.
* * *
Il simbolo di piazzetta Orefici è il crocifisso ligneo.

Secondo la leggenda a portarlo nella piazza fu nell'Ottocento, nel bel mezzo di un'epidemia di peste, un commerciante di pietre preziose, tale Francesco di Ruberto, il cui fratello era gravemente ammalato di asma. I due uomini, in una calda giornata del 1839, andarono a fare una passeggiata tra le campagne di Afragola in cerca di aria fresca. A un certo punto la loro carrozza si fermò davanti a un Crocifisso posto in un viottolo solitario. Da quel momento Salvatore, il fratello ammalato, si sentì improvvisamente meglio, gli attacchi d'asma terminarono. I due fratelli vollero che la preziosa effige fosse portata all'interno del Borgo Orefici (la leggenda non dice come) e posta al centro della piazza. Il Crocifisso, posto sotto una copertura in rame battuto, è sostenuto da un basamento in calcestruzzo armato dove sono rappresentati i simboli della passione di Cristo e quelli delle corporazioni degli orafi. La particolarità del crocifisso del Borgo Orefici è che si può guardare da entrambi i lati nello stesso modo.

Il crocifisso fu restaurato dagli eredi nel 1877, ma due familiari non vollero pagare e quelli che invece avevano messo mano al portafoglio vollero sottolinearlo in una targa. Così, sulla base in pietra, ancora si legge: «Restaurato dagli eredi di Ruberto, meno Luisa e Carmela anno 1877». A futura memoria.

Il ricordo delle antiche corporazioni, ancora vivo nell'Ottocento, e perpetuato nei toponimi delle vecchie strade, fu cancellato dai lavori del Risanamento, che, oltre a trasformare la struttura urbana dei quartieri bassi, ne mutarono soprattutto il tessuto sociale. Così scriveva Vincenzo D'Auria: «Queste vie anche oggi (...) presentano, in certe ore del giorno, uno spettacolo curioso, per la grande animazione che le agita, per la moltitudine delle genti che le frequentano. Su buona parte di questo labirinto di vie e viuzze, il rettifilo compie l'opera sua benefica, s'inoltra vittorioso, e a dritta e a manca dirada, distrugge, alle tenebre sostituisce la luce»

(Vincenzo D'Auria, La piazza degli Orefici, in Napoli nobilissima, 1893).

La zona degli Orefici costituisce, insieme con Rua Catalana, uno dei pochi casi in cui gli artigiani, impegnati nella medesima attività, hanno conservato la stessa sede secondo una consuetudine che affonda le radici in un lontano e mitico passato. Sul modello dell'antica Corporazione, nel 2000 numerose aziende del settore hanno fondato il Consorzio Antico Borgo Orefici, con il compito di tramandare la tradizione dell'arte orafa-argentiera attraverso i suoi commercianti e artigiani e grazie alla scuola di formazione per orafi La Bulla, situata nel palazzo omonimo in via Duca di San Donato, e dove sono anche ospitati un Museo dell'Arte orafa, un'area per le conferenze e laboratori di creatività. La piazza dei passi perduti, che ci guarda dal passato, ha ancora tante cose da raccontare e da insegnare al mondo.

La Fontana della Pietra del Pesce, in via Carlo Troya, fu costruita nel 1578 di forma triangolare presso la loggia di Genova, cioè la sede napoletana dei mercanti liguri. Verso la fine dell'Ottocento, oltre all'attuale vasca triangolare in marmo, era presente anche un alto obelisco centrale con tazza alla sommità, alla cui base facevano bella mostra pregevoli sculture di pesci. Alla fontana è legata una curiosa leggenda, che gli abitanti del posto si tramandano di padre in figlio: in alcuni giorni, quando la piazzetta è piena di persone e venditori ambulanti, ci si può imbattere nel fantasma, del tutto innocuo, di un vecchio pescatore con due grosse ceste ricolme di pesce fresco.

L'intero luogo è ammantato di magia: lo stesso nome Pietra del Pesce deriva da una leggenda medievale legata al mago Virgilio, ripresa anche da Gennaro Aspreno Galante e Matilde Serao: si narra che Virgilio per mantenere il pescato della città sempre fresco incise con un incantesimo su di una pietra l'immagine di un pesciolino vivo. Spostata per i lavori del Risanamento, distrutta dai vandali nel secondo dopoguerra, oggi dell'antica fontana sopravvive solo la vasca e una piccola scalinata. Unica testimonianza di un mondo in larga parte scomparso. Diceva donna Matilde che nelle fontane di Napoli ci sono le lacrime della città. La Fontana della Pietra del Pesce è il simbolo della città senza più lacrime.

© RIPRODUZIONE RISERVATA