Capitano, mio capitano. E nella Reggia di Napoli spuntò l'ombra di Caravaggio

Capitano, mio capitano. E nella Reggia di Napoli spuntò l'ombra di Caravaggio
di Vittorio Del Tufo
Domenica 21 Novembre 2021, 11:58 - Ultimo agg. 13:13
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«La bellezza salverà il mondo» (Dostoevskij, L'idiota)

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Gonzalo Fernández de Córdoba, chi era costui? Cosa lo lega ai maestri della pittura napoletana del Seicento? E cosa ci fa il volto di Caravaggio, in mezzo a tante altre figure, sulla volta affrescata della Sala del Gran Capitano, nel Palazzo Reale di Napoli? Entrare nella sontuosa sala dedicata a don Gonzalo e alle sue mirabolanti avventure, ed ammirare i dipinti realizzati nella prima metà del Seicento da Battistello Caracciolo, significa compiere un vertiginoso viaggio nello spazio e nel tempo, e ritrovarsi catapultati nella Napoli dei condottieri e degli uomini d'arme, dei re cattolici e dei viceré spavaldi e feroci; significa ritrovarsi nella Napoli che a partire dal 1503, e per oltre due secoli, sparì dal concerto delle potenze europee per diventare una provincia periferica «costretta a cercare spazio - come scrisse Antonio Ghirelli nel suo prezioso libro dedicato alla storia della città - nell'immenso contesto dell'impero spagnolo».

Fatevi largo, passa il Capitano. Gonzalo Fernández de Córdoba, El Gran Capitán, entrò a Napoli il 16 maggio 1503, dall'ingresso di Porta Capuana, dopo aver ricevuto a Poggioreale l'omaggio dei notabili della città. Battendosi contro i francesi e conquistando la città per conto di Ferdinando il Cattolico, le truppe del comandante diedero avvio ai due secoli di dominio spagnolo. Don Gonzalo, primo viceré e famoso per le sue imprese militari, tentò di passare alla storia anche per il tentativo di introdurre l'Inquisizione sul modello spagnolo in città. Non ci riuscì, come non ci sarebbe riuscito, dopo di lui, il tostissimo viceré don Pedro de Toledo, l'uomo che disse «Los malos era bien fuessen castigados» (Pedro il castigamatti fu ancora più deciso del suo predecessore nel calare il pugno di ferro contro i fenomeni di eresia che infestavano il territorio del vicereame; ma i napoletani reagirono inscenando rivolte e facendo vedere i sorci verdi al mitico viceré de Toledo, ma questa è un'altra storia).
Quanto a lui, Gonzalo anche noto come Consalvo di Córdoba, governò per breve tempo, e precisamente dal 1504 al 1506. I napoletani cominciarono a prenderlo in antipatia quando pretese uno spontaneo donativo di trecentomila ducati dai sudditi. «Tuttavia - come ricorda Marco Perillo nel suo ultimo libro, Breve storia di Napoli - egli seppe col suo potere tenere a bada l'ormai annosa prepotenza dei baroni, facendosi artefice della ricostruzione di gran parte dei castelli distrutti dalle recenti guerre». Il suo operato terminò quando venne accusato di speculare sul riordinamento dell'annona. Rimasto sconvolto dalla morte (avvenuta proprio nel 1504) della regina Isabella, la sua più ardente sostenitrice, don Consalvo cadde presto in disgrazia, ruppe con il re e si ritirò in un castello nei pressi di Granada per fare vita contemplativa.

A Palazzo Reale uno straordinario ciclo di affreschi è dedicato all'uomo che nel 1503 riuscì a conquistare Napoli (ma non il cuore dei napoletani) sottraendola ai francesi e donandola su un vassoio d'argento agli spagnoli. Il ciclo - Storie di Consalvo di Córdoba - fu dipinto tra il secondo e il terzo decennio del 600. L'autore è un genio del pennello cresciuto all'ombra dell'extraterrestre Caravaggio: Giovan Battista Caracciolo detto Battistello. E al Gran Capitano è dedicata la sala affrescata, una delle più belle di Palazzo Reale. I dipinti vennero commissionati a Battistello dal viceré Fernando Ruiz de Castro, conte di Lemos, per celebrare una visita che in realtà non avvenne mai, quella di Filippo III di Spagna. Basta levare in alto lo sguardo per smarrirsi nello splendore del soffitto seicentesco. Il ciclo di affreschi racconta proprio la storia, per immagini, dell'evento bellico che cambiò la storia della città.
La volta dipinta da Battistello, divisa da una cornice di stucchi dorati a foglia d'oro, è composta da cinque scene, dai titoli altisonanti: Il Gran Capitano che s'impadronisce di tutta la la Calabria; L'incontro di Consalvo de Cordova con gli ambasciatori di Napoli che gli offrono le chiavi della città; la Disfida di Barletta, Il duello tra Consalvo e il signor de La Palisse, molto rovinato; L'Entrata trionfale di a Consalvo a Napoli.

Il nome di Battistello compare in un pagamento del 1611, della tesoreria regia, dove si fa riferimento a «la pintura che ha fatto nel detto Palazzo».

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Battistello Caracciolo è considerato da sempre il più telentuoso tra i seguaci di Caravaggio. Quest'ultimo era giunto a Napoli, nel 1606, da uomo in fuga, perché accusato di aver ucciso a Roma il giovane Ranuccio Tomassoni, durante una lite. Nella città governata dai viceré spagnoli si incrociarono spiriti inquieti, che incrociarono i loro pennelli per dar vita a capolavori senza tempo. All'alba del 600 Napoli era un tappeto di stracci, il divario tra popolo e aristocrazia era immenso, la ricchezza concentrata nelle mani di poche famiglie; tutti gli altri, lazzari e disperati, si dividevano i resti. Eppure quel periodo verrà ricordato anche per l'esplosione di una vitalità e di una creatività artistica senza precedenti. Se Caravaggio era il maestro, Battistello era il più caravaggesco tra i discepoli del genio lombardo. Lo testimoniano alcune tra le sue opere più famose, da David con la testa di Golia (Galleria Borghese) a Qui vult venire post me (Torino, Rettorato dall'Università), dalla Lavanda ai piedi (Certosa di San Martino) alla Liberazione di San Pietro, dipinto quest'ultimo conservato presso il Pio Monte della Misericordia, accanto al capolavoro del maestro, le Sette Opere di Misericordia.

Battistello faceva parte, con Belisario Corenzio e Jusepe de Ribera, detto lo Spagnoletto, del gruppo dei maestri del pennello che si batterono, nella prima metà del Seicento, per ottenere i lavori nella Cappella del Tesoro di San Gennaro, considerati i più importanti in quel periodo a Napoli. La cricca si batté con ogni mezzo - a quanto pare lecito e meno lecito - per impedire che la realizzazione degli affreschi all'interno della Cappella venisse affidata a pittori forestieri. Una pagina ancora oscura, misteriosa, della storia della città. Quel gruppo di artisti del pennello passò alla storia come la Cabala di Napoli: se la presero in particolare con il bolognese Guido Reni, considerato un usurpatore, costringendolo a suon di minacce a fuggire da Napoli a gambe levate.
Un mistero che da sempre appassiona gli storici dell'arte è legato alla presenza, tra le figure ritratte negli affreschi nella sala del Gran Capitano, del volto di Caravaggio. La scena è quella raffigurante L'incontro di Consalvo con gli ambasciatori e il volto di Michelangelo Merisi fa capolino al centro della scena, tra gli altri astanti. Caravaggio era morto da poco (1610) e Battistello, raffigurandolo nel soffitto della sala, volle rendere omaggio al suo ispiratore e maestro. Un tributo all'uomo che gli stravolse la vita. E cambiò per sempre la storia della pittura.

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