Pane, vino e Maramaldo: il mito di un antieroe nella Napoli del '500

Pane, vino e Maramaldo: il mito di un antieroe nella Napoli del '500
di Vittorio Del Tufo
Domenica 27 Gennaio 2019, 14:01 - Ultimo agg. 28 Gennaio, 10:32
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Quando tutto tace
e su nel ciel la luna appar,
col mio più dolce e caro miao,
chiamo Maramao.

(Maramao perché sei morto)

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Nel 1939 il grande paroliere e compositore milanese Mario Panzeri - sua la canzone che, molti anni dopo, avrebbe vinto il primo Festival di Sanremo, la celebre Grazie dei fiori cantata da Nilla Pizzi - compose uno strano e ipnotico ritornello, a ritmo di foxtrot, che riprendeva una filastrocca (o un canto popolare) risalente alla prima metà del XVI secolo e che avrebbe avuto origine nel Regno di Napoli.

Maramao perché sei morto
Pane e vin non ti mancava

Era la storia di alcune gattine disperate per la morte del gatto per cui tutte loro spasimavano. Perché sei morto?, chiedono le gattine affrante, quasi incredule per la sorte toccata al loro amico, che in vita poteva ben dire di godersela dal momento che aveva tutto quello che si può desiderare: pane e vino, una casa e un giardino con l'insalata! Incredibile a dirsi, ma quel ritornello, apparentemente innocuo, finì subito nel mirino della censura fascista. Com'è possibile che il regime di Mussolini, a cui i grattacapi di certo non mancavano, si accanisse contro una canzone che parlava di gatti, di una nonnina «triste e sola al focolar» e di un'insalata che era nell'orto? Il fatto è che, purtroppo per Panzeri, il brano fu lanciato pochi mesi dopo la morte di Costanzo Ciano, consuocero di Mussolini (il figlio Galeazzo ne aveva sposato la figlia Edda) in onore del quale si stava erigendo un monumento a Livorno. Gli sgherri del Duce si convinsero che la canzone ironizzasse sulla morte del gerarca Ciano, presidente della Camera dei Fasci e delle Corporazioni, anche perché la scritta «Maramao perché sei morto», per somma sventura, comparve a Livorno sul monumento dedicato alla memoria del padre di Galeazzo. Convocato dal capo della censura, Panzeri riuscì a dimostrare che la canzone era stata scritta prima della morte di Ciano.
Ma l'incredibile storia di Maramao è tutt'altro che chiara e affonderebbe le radici in un oscuro passato. E più precisamente in un celebre episodio accaduto nel Cinquecento e che ha dato a sua volta origine a un famosissimo modo di dire: Vile, tu uccidi un uomo morto! Una storia intrisa di sangue e vendetta, con due protagonisti: il capitano fiorentino Francesco Ferrucci e il soldato di ventura napoletano Fabrizio Maramaldo.

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Il condottiero Fabrizio Maramaldo era nato a Napoli nel 1494 da una famiglia nobile appartenente al seggio di Nido. Fuggì dal Regno giovanissimo, dopo aver trucidato, per questioni d'onore, la prima moglie. Da esule cominciò dunque la sua carriera militare. Fabrizio aveva una discreta fama di attaccabrighe, ma il suo temperamento inquieto non gli impedì di muoversi abilmente presso le principali corti dell'epoca. Così divenne un leale suddito prima di Ferdinando il Cattolico e poi di Carlo V d'Asburgo. Al soldo di quest'ultimo prese parte al famoso sacco di Roma del maggio 1527, come capitano di ventura. E qualche anno dopo appoggiò i Medici contro l'esercito della Repubblica Fiorentina durante l'addio di Firenze. Insomma, tra protezioni eccellenti, imprese sul campo, intrighi di corte, duelli e città messe al sacco, il nostro Maramaldo acquisì una fama talmente solida da diventare un punto di riferimento del sistema militare asburgico in Italia. Celebrato in vita come uno dei soldati più prestigiosi della sua epoca, Maramaldo collezionò successi, onorificenze e saccheggi. Collezionò anche numerosi nemici. E furono questi ultimi, per dileggio, a decidere di storpiare il suo cognome trasformandolo in un miagolio.
Maramau, Maramau/Mao, mao, mao, mao, mao.../Maramao perché sei morto?/Pane e vin non ti mancava/l'insalata era nell'orto/e una casa avevi tu/

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Il capitano di ventura Fabrizio Maramaldo è passato alla storia (e alla leggenda) per aver trafitto, nel 1530, in occasione della battaglia di Gavinana, un suo prigioniero, ferito e inerme: il capitano Francesco Ferrucci. Il quale, impossibilitato a difendersi, un attimo prima di tirare le cuoia si sarebbe rivolto in modo sprezzante al napoletano che lo stava infilzando: «Vile, tu uccidi un uomo morto!». L'episodio va inquadrato nel famoso assedio di Firenze del 1530, che vide Maramaldo schierato con i Medici contro l'esercito della Repubblica Fiorentina. Perché tanta ferocia? Maramaldo desiderava vendicarsi di un'offesa ricevuta da Ferrucci, il quale mesi prima aveva fatto impiccare un suo araldo (un «trombetto») che gli aveva chiesto sprezzantemente la resa. Ma c'è di più. Ferrucci aveva dato ordine che il rivale venisse irriso dalle mura della città, storpiando il suo nome in «maramao» e facendo penzolare dei gatti dalle finestre, in modo che miagolassero. Maramau, Maramau...

In questa storia di certezze ve ne sono poche, lo stesso episodio della morte di Ferrucci è controverso. Molti storici, infatti, sostengono che il poveretto sia morto in battaglia, che non abbia mai pronunciato la frase che avrebbe reso famoso il suo assassino. Ma la leggenda è tenace, e il capitano di ventura Fabrizio Maramaldo è passato comunque alla storia per «aver ucciso, da vile, un uomo morto». Celebrato in vita come un condottiero valoroso e senza macchia, il suo nome è divenuto col tempo un sigillo d'infamia e di viltà, e un sostantivo - maramaldo - con cui ancora oggi si indica una persona che infierisce sui più deboli.

Un'ulteriore versione della storia (vedi Galleriadellacanzone.it) vuole che una volta liberatosi del nemico, Maramaldo sia tornato a Napoli a gozzovigliare e a dissipare i suoi beni, fino a morire all'improvviso e suscitare lo sferzante commento del popolino: «Avevi tutto, donne, cibo... Maramaldo, perché sei morto?». Fabrizio Maramaldo morì a Napoli, nel 1552, e venne sepolto nella tomba di famiglia in San Domenico Maggiore.

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Storia e leggenda, nella vicenda di Maramaldo, o Maramau, si confondono. Da entrambe si dipana un sottilissimo filo che attraverso i secoli arriverebbe fino al 900, fino alla canzone di Panzeri portata al successo dal Trio Lescano, da Nicola Arigliano e da Rita Pavone. La triste vicenda del gatto Maramao, insomma, pur nata come canzoncina per i bambini affonda le radici nella tradizione popolare e sarebbe stata poi trasfigurata in una filastrocca intonata, più di una volta nel corso dei secoli, a scherno dei potenti. Accadde anche nel 1831, a Roma, quando un povero storpio venne arrestato mentre canticchiava, riportano le cronache, uno strano motivetto: «Maramao perché sei morto? Pan e vin non ti mancava...». Papa Pio VIII era scomparso da poco e si pensò che lo storpio ironizzasse sui recenti funerali del Pontefice. Un mistero in più: possibile che l'insalata nell'orto di Maramao fossero le prelibatezze dei giardini del Vaticano?
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