Il Maelström di Napoli, le notti di tempesta tra storia, mito e leggenda

Il Maelström di Napoli, le notti di tempesta tra storia, mito e leggenda
di Vittorio Del Tufo
Domenica 3 Gennaio 2021, 10:58 - Ultimo agg. 4 Gennaio, 06:30
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«Mai avrei creduto che un'onda potesse levarsi così in alto. E poi giù, con un balzo, una scivolata, un tuffo che mi diedero nausea e vertigini, come se in sogno cadessi dall'altissima vetta di una montagna»

(Edgar Allan Poe, Una discesa nel Maelström).

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Napoli sprofonda nel suo passato come in un baratro. La sua stessa cronaca - assordante, spesso feroce - non fa altro che riportarci tra le pagine di storia. Pagine che sopravvivono nel tempo, depositate nel fondo della nostra memoria, come il battito ancestrale dei vulcani. Quando credevamo di averle dimenticate, o rimosse, tornano a galla come relitti, in un vortice perenne che immaginiamo simile a quello descritto da Edgar Allan Poe nella sua Discesa nel Maelström.

Alla discesa nel Maelström hanno fatto pensare le immagini di lunedì sera, la furia del mare in tempesta, il fragile lungomare sventrato e i tendoni dei ristoranti scaraventati lontano come fuscelli. Quella mareggiata ha fatto tornare a galla paure antiche, e storie sospese tra realtà, mito e leggenda. Onde più alte di quelle che lunedì hanno flagellato la costa videro i napoletani la notte tra il 24 e il 25 novembre 1343. La terribile notte in cui si credette che il Castello adagiato sul mare sarebbe stato spazzato via dalle onde e che l'Uovo magico deposto dal poeta Virgilio sarebbe andato distrutto per sempre. 

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Quella notte un violento tsunami devastò la costa napoletana propagandosi fino alla costiera amalfitana e seminando ovunque distruzione e morte. Il maremoto spazzò via tutte le navi in rada, tranne quella dove erano stivati quattrocento prigionieri destinati alle prigioni del Castello. Quando l'onda si ritirò, una folla immensa si radunò davanti al porto. Accorse anche, per rincuorare il suo popolo, la regina Giovanna I d'Angiò, nipote di Roberto il Saggio, che era salita al trono da pochi mesi. Aveva appena sedici anni.

Francesco Petrarca fu un altro testimone di quella drammatica notte. Anzi fu tra i primi ad accorgersi che qualcosa di terribile, forse di irreale, stava per abbattersi sulla città e sui suoi abitanti. L'autore del Canzoniere era stato inviato a Napoli dal Papa per perorare la causa di tre fratelli, figli della casata dei Pipini, fatti imprigionare da re Roberto d'Angiò. Ospite del convento di San Lorenzo, davanti alla finestra del suo romitorio scrutava le tenebre dietro il monte di San Martino. Anche la temperatura era insolita: faceva addirittura caldo benché fosse ormai inverno inoltrato. Petrarca non seppe dire se e come la tragedia si annunciò; ricordò, tuttavia, che fu assalito all'improvviso «dal timore della morte vicina». Un timore irrazionale - come ricordò egli stesso in una drammatica lettera al cardinale Colonna - gli impedì di prendere sonno. Pochi giorni prima un astrologo vecchio e balbuziente aveva predetto che presto una terribile catastrofe si sarebbe abbattuta sulla città. Tutto accadde in una manciata di minuti. Il maremoto fu preceduto da un boato che squassò la notte mandando in frantumi vetri e finestre. I frati e il priore del monastero, già in chiesa per cantare il Mattutino, furono scaraventati a terra. Il buio inghiottì in un attimo le loro urla. La profezia del vecchio astrologo balbuziente si stava avverando

(vedi Uovo di Virgilio del 16/6/2019).

Così Amedeo Feniello, studioso della Napoli medievale e autore del libro Napoli 1343, ricorda quello che Francesco Petrarca e tutti i napoletani videro il giorno dopo.

«Arriva il mattino. Il vero giorno. Lo scenario è da incubo. Dalla strada crescono le urla. Vengono dal porto. Cos'è successo? Petrarca balza a cavallo. Va verso il molo. Vedere è morire: la violenza del maremoto è stata capace di trascinare con sé qualunque cosa. Uomini, animali, edifici. Le stesse strutture del porto appaiono gravemente danneggiate, trascinate via con inaudita violenza. Del quartiere prospiciente il mare, solo rovine, risucchiate dalle onde. Tutt'intorno alla spiaggia un paesaggio di desolazione e di paura. Il mare assume un colore innaturale. Non ceruleo, o scuro e tenebroso, come nel cuore di una tempesta. Ma bianco, dell'orrido candore della spuma»

(Amedeo Feniello, Napoli 1343).

Il maremoto del 1343 richiama alla mente un evento simile avvenuto in età normanna, quando la violenza delle acque distrusse la dogana d'ingresso e le strutture portuali.

L'acqua, in quella occasione, raggiunse la zona dell'attuale piazza della Borsa. Recentemente, una ricerca pubblicata sulla rivista Scientific Reports ha provato a ricostruire con esattezza cosa accadde la notte tra il 24 e il 25 gennaio 1343. A scatenare il maremoto sarebbe stata una frana sottomarina avvenuta a Stromboli e provocata, a sua volta, da una violenta scossa di terremoto, che avrebbe innescato il collasso della Sciarra del Fuoco.

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O mare è mmare - scriveva il grande Eduardo in una splendida poesia del 1968 - e nun o sape ca te fa paura. Riemerge dal passato il ricordo di un'altra spaventosa tempesta, che colpì Napoli alcuni decenni più tardi, nel 1376. Le onde, anche quella notte, arrivarono fin sopra i bastioni di Castel dell'Ovo inondando le celle. La violenza delle acque fece crollare il grande arco naturale, ricostruito in muratura dalla regina Giovanna e danneggiato dalla mareggiata di lunedì sera. A documentare quello che accadde è un antichissimo documento, il Chronicon Siculum. Le onde distrussero il Molo piccolo e il Molo grande, mandando a picco molte navi genovesi che in quel momento si trovavano in rada. Realtà e leggenda si confondono: si narra che quella notte un condottiero lombardo, Ambrogio Visconti, prigioniero a Megaride, avesse approfittato del maremoto per evadere; per farlo attraversò la rete di cunicoli e stanze segrete che si stendeva sotto il bastione e, tra queste, l'antro in cui era celata la caraffa nella quale era stato depositato l'Uovo alchemico di Virgilio. La gabbia, urtata dal prigioniero in fuga, sarebbe caduta provocando la rottura del recipiente. È impossibile ricostruire con esattezza cosa accadde in quei drammatici momenti. La leggenda narra anche in quella occasione accorse la regina Giovanna, per rincuorare il popolo napoletano, il quale, temendo per l'incolumità dell'Uovo del mito, presagiva nuove e più gravi sciagure.

Fu una tempesta, ancora una volta davanti a Megaride, a sorprendere la giovane Patrizia da Costantinopoli, la principessa diventata santa e compatrona di Napoli. Discendente di Costantino il Grande, viaggiando per mare dopo essere fuggita da un matrimonio impostole con la forza dalla famiglia, Patrizia venne sorpresa dalla bufera e fece naufragio a Napoli, sull'isolotto di tufo, dove fondò una comunità di preghiera e di assistenza ai poveri e ai malati.

Nel Castellum Lucullanum, dove già nel quinto secolo, dopo la morte di Romolo Augusto, si erano insediati i monaci basiliani, Patrizia visse i pochi anni che le restavano con la fedele nutrice Aglaia ed alcuni eunuchi. Attorno a lei si sviluppò una piccola comunità di devote, che - con la bella principessa venuta da lontano - si chiusero in clausura e rimasero a sorvegliare il corpo della vergine quando questa morì, ad appena 21 anni. Era il 25 agosto del 685 dopo Cristo; circa mille anni dopo, nel 1625, la discendente di Costantino sarebbe diventata santa.

Tornando ai giorni nostri, colpisce un'incredibile coincidenza di date. Era il 28 dicembre 1927 quando una violenta mareggiata, del tutto simile a quella di lunedì scorso, si abbatté sulla costa napoletana. Anche allora si contarono i danni e si versarono lacrime di coccodrillo sulla mancata tenuta delle barriere e delle strutture di contenimento. Stessa data, stesse polemiche, nessuna contromisura. A distanza di 93 anni prevalgono il fatalismo, la mancanza di progetti seri e una consapevole rassegnazione. La stessa ignavia che ci farà perdere altri simboli del passato: è di ieri la notizia del crollo dell'Arco Borbonico - ultima testimonianza del vecchio porticciolo borbonico ritratto in tanti dipinti della Scuola partenopea - che avremmo dovuto difendere come una cosa preziosa, come un lascito del passato depositato sul fondo della nostra memoria.

Io quanno o sento,
specialmente e notte,
nun è ca dico:
«'0 mare fa paura»,
ma dico:
«'0 mare sta facenno o mare».

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