Oh che bel Castello,
don Pedro e la torre
del Malguadagno

Oh che bel Castello, don Pedro e la torre del Malguadagno
di Vittorio Del Tufo
Domenica 24 Ottobre 2021, 20:00
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«La pallida morte batte ugualmente al tugurio del povero come al castello dei re»

(Orazio)

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Era il 1532, erano gli anni di don Pedro. L'uomo di Carlo V, il terribile viceré che pose fine allo «scandalo delle orge» facendo murare le gallerie ai piedi del Monte Echia, l'uomo che cambiò il disegno urbanistico e dunque il volto della città, stabilì, nel lontano 1532, che nella rivoluzione urbanistica della capitale del viceregno fosse data priorità alla ristrutturazione di Castel Nuovo. C'era un problema, però: i soldi mancavano e bisognava ricorrere a nuove gabelle. Che fare? Dopo aver fatto ricostruire i torrioni del Molo, dell'Incoronata, di Santo Spirito e del parco, restava da risistemare la torre del Beverello. Il popolo era stato spremuto all'osso; l'unica categoria che sfuggiva ai gabellieri era quella delle prostitute, che a quell'epoca si riunivano al Largo Baracche. Il viceré impose pertanto un'esosa tassa sulla prostituzione: le donne che si accompagnavano ai soldati spagnoli dovevano cedere tre quarti del compenso pattuito. Quel tesoretto, secondo un racconto popolare che si tramanda da centinaia di anni, venne utilizzato per ricostruire la torre che da allora i napoletani chiamano «dellu Maluguadagno».

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Le truppe spagnole erano entrate in città 29 anni prima, nel 1503. A partire da quella data e per oltre due secoli, per dirla con Antonio Ghirelli (Storia di Napoli), «Napoli scompare dal concerto delle potenze e diventa una provincia periferica costretta a cercare spazio nell'immenso contesto dell'impero spagnolo». La città aveva subito gravi danni a seguito dell'assedio. Gli eventi bellici non avevano risparmiato i castelli e tra i più danneggiati troviamo proprio il nostro caro Maschio Angioino. Per questo motivo si rese necessario provvedere a un robusto intervento di restauro, non solo per riparare le strutture danneggiate, ma anche per ampliarle secondo un progetto che era stato redatto proprio nell'anno della conquista spagnola. Castel Nuovo, a quell'epoca, si trovava ai margini della città, a cavallo delle mura e a guardia delle strutture portuali (il molo e l'arsenale, che erano dotati di propri recinti).

A progettare le modifiche al vecchio forte aragonese gli uomini al potere chiamarono una vera e propria archistar, Pedro Luis Escrivà, l'ingegnere militare che progettò Sant'Elmo. La costruzione del recinto fortificato richiese tempo e un mucchio di quattrini, mentre con la costruzione delle nuove mura della città (anni 30 e 40 del Cinquecento) il Castello non si trovò più ai margini della città ma al centro. Dal punto di vista strettamente militare e strategico, il Maschio Angioino finì col trovarsi in una posizione subordinata rispetto a Castel Sant'Elmo. Come spiega lo studioso Lanfranco Longobardi («La cittadella di Castel Nuovo dal XVI al XIX secolo») «il potenziamento progressivo delle artiglierie campali aveva determinato l'esigenza di fortificare la fascia collinare (Pizzofalcone e la collina di San Martino)».

Napoli, ai tempi di Carlo V e di don Pedro, era una città esasperata dalle tasse, quasi sempre inflitte - e implementate - per sostenere le spese belliche del padre-padrone spagnolo. In più di un'occasione, mentre l'aristocrazia si trincerava nei propri fortini dorati, la plebaglia affamata si sollevò contro le istituzioni inscenando rivolte e tumulti puntualmente soffocati nel sangue. È in questo contesto che vanno inquadrati i balzelli imposti da Pedro de Toledo per restaurare i torrioni di Castel Nuovo. Compreso il balzello per le prostitute che poterono così contribuire, obtorto collo, alla ricostruzione di una delle torri.

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Fino al Seicento, quando i viceré poterono disporre della nuova Reggia progettata da Domenico Fontana, il Castello fu tenuto a disposizione dei sovrani iberici in visita a Napoli.

Passò alla storia la visita a Napoli di Carlo V, sul cui impero non tramontava mai il sole: il sovrano non si limitò a organizzare feste e festini, a celebrare matrimoni (tra i quali quello di sua figlia) e a ospitarvi alleati provenienti da mezza Europa, ma volle regalare a Napoli il brivido - tutto spagnolo - della Corrida. Così, il giorno dell'Epifania del 1536, una folla immensa si radunò in piazza Carbonara (oggi via San Giovanni a Carbonara) per assistere a uno spettacolo mai visto in città. L'arena di sabbia era stata realizzata ai margini di un vasto emiciclo, mentre gli eletti dei seggi cittadini facevano ala all'imperatore Carlo V e al viceré de Toledo (che si vantava di essere un eccellente toreador) seduti al centro del sontuosissimo palco. Dopo il lungo cerimoniale del bacio della mano e del ginocchio la festa ebbe inizio. Alla vista del toro, del sangue, del rituale del sacrificio, il popolo impazzì. E decise di assumere, all'istante, la tradizione iberica: altre corride si tennero, infatti, nel gennaio 1680 (festa di San Giacomo, patrono di Spagna) al largo Castello e nell'agosto 1685 a Mergellina, per celebrare l'onomastico della regina. Poi, con la fina della dominazione spagnola, la tradizione sfumò.

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Con la costruzione del Palazzo Reale, prima quello vecchio (1540-1564) poi quello nuovo (inizi XVII secolo) le sedi governative furono trasferite all'esterno di Castel Nuovo e la funzione stessa del vecchio bastione cambiò: il Maschio divenne un'importante tappa del cerimoniale di corte, perché si trovava sul percorso che dal porto conduceva al nuovo Palazzo Reale. Sull'esempio del passetto di Roma, che tuttora collega i palazzi vaticani a Castel Sant'Angelo, Castel Nuovo fu collegato al Palazzo Reale con un ponte levatoio, poi sostituito nell'Ottocento con l'attuale corridoio, in modo da permettere al viceré di passare dal Castello alla Reggia (e viceversa) senza passare per le strade cittadine. Una scorciatoia (e una via di fuga) utile soprattutto in caso di rivolta della popolazione locale, come avvenne durante la rivolta di Masaniello del 1647-1648.

Castel Nuovo divenne, ancora, teatro di manifestazioni a carattere militaresco (come le rassegne delle truppe) e popolari (come il gioco della cuccagna). Nel Largo del Castello, negli ultimi anni della dominazione spagnola, fu costruito un anfiteatro con un giardino con fontane, statue e quattro piramidi, sulle quali erano disposti generi alimentari per la cuccagna. Gli stessi, vecchi ambienti aragonesi furono trasformati: la Cappella Palatina divenne la chiesa di Santa Barbara, la sala regia divenne un magazzino e nel 1666 un'armeria e gli appartamenti reali furono occupati dagli ufficiali militari.

Fu durante questo periodo che andarono perduti gli affreschi di Giotto (realizzati nel 300) che decoravano la Cappella Palatina. A Napoli il grande maestro fiorentino - chiamato a Napoli da Roberto d'Angiò nel 1328 come pittore ufficiale di corte e incaricato dal re di decorare gli ambienti più importanti del castello - era rimasto fino al 1333, con la sua nutrita bottega. Godette di una fama straordinaria e potette contare sull'appoggio incondizionato del sovrano, che lo elesse suo «familiare». Dei capolavori realizzati da Giotto a Castel Nuovo è rimasto poco o niente, purtroppo. Solo i frammenti di alcune decorazioni degli strombi dei finestroni della Cappella Palatina, mentre sono scomparsi quasi del tutto gli affreschi «profani» degli Uomini Famosi (Alessandro, Salomone, Ettore, Enea, Achille, Paride, Ercole, Sansone e Cesare). In quegli stessi anni, inoltre, Giotto aveva affrescato una cappella segreta distrutta durante il restauro del Maschio Angioino in età aragonese. 

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