Brividi alla Conocchia,
lo spettro che domina
la collina dei pittori

Brividi alla Conocchia, lo spettro che domina la collina dei pittori
di Vittorio Del Tufo
Domenica 26 Luglio 2020, 20:00
5 Minuti di Lettura
«Guarda i palazzi: neppure loro sono riusciti a diventare adulti»
(Dominique Fernández, Porporino o i misteri di Napoli)
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Andiamo alla Conocchia, mi annuncia Sergio con una determinazione che non ammette repliche. Va bene, andiamo alla Conocchia, gli rispondo io, consapevole che entrare in quell'antico antico convitto vuol dire ritrovarsi come Giona nel ventre di una balena. Solo che la Conocchia non è una balena ma un gigante che dorme sulla collina, un luogo dimenticato da Dio e dagli uomini, un pezzo di storia della città oggi aggredito dal nulla e dalla vegetazione incolta. Del maestoso edificio, ridotto a rudere, non sono rimasti che corridoi semibui e finestre simili a orbite cieche che guardano l'area oggi occupata da un lato dal Parco del Poggio, ai Colli Aminei, e dall'altro il Rione Sanità. Un luogo della memoria.

Eppure c'è stato un tempo in cui la Conocchia era un vanto di Napoli. Ai tempi dei romani, quando l'imperatore Augusto era il padrone del mondo, qui sorgeva uno splendido mausoleo, al quale si accedeva lungo l'antico percorso della salita dello Scudillo. Una stampa dell'Ottocento mostra l'ingresso del mausoleo e tutt'intorno un paesaggio da favola: qui la città non era ancora arrivata. La denominazione Conocchia fu utilizzata nel Medioevo per indicare una certa tipologia di mausolei, quelli a cuspide, la cui forma affusolata ricordava quella di uno strumento tessile: Conocchia deriva dal latino conuccla, rocca per filare. Nell'epoca del Grand Tour il mausoleo della Conocchia attirava non solo viaggiatori a caccia di orizzonti ameni, ma anche vedutisti e pittori. Poi, lentamente, se n'è persa la memoria.

Incredibile ma vero, nel 1965 il mausoleo fu fatto saltare in aria. Boom, addio a un pezzo della nostra storia. Erano gli anni del sacco di Napoli, delle mani sulla città. Il mausoleo, ridotto a stalla, non era sottoposto ad alcun vincolo archeologico e non era nemmeno censito tra i beni di interesse storico e culturale. E infatti il processo penale che ne seguì si concluse con l'assoluzione del costruttore che aveva effettuato i lavori di sbancamento!
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«È accaduto a Napoli, nel mese di aprile, un fatto che anche il più immaginoso pessimista non sarebbe stato capace di prevedere, e cioè la demolizione pura e semplice e quindi la totale scomparsa di un monumento insigne: il mausoleo romano dello Scudillo, comunemente noto con il nome di Conocchia.
Assolvo il compito di darne circostanziata notizia in questa rubrica anche perché il fatto è stato reso pubblico esclusivamente da un comunicato di Italia Nostra, e, malgrado la sua eccezionale gravità, non ha suscitato sinora alcun commento ma solo un curioso equivoco. Infatti, essendo, con lo stesso nome, indicata una scuola dei Gesuiti in prossimità della zona in cui sorgeva il monumento, si è ritenuto che l'edificio demolito non fosse il mausoleo ma la scuola stessa, e si è quindi concluso che essa non era poi un edificio di tale importanza da motivare pubbliche denunzie e deplorazioni»

(Roberto Pane, Napoli Nobilissima, marzo-aprile del 1965)
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Il gigantesco e tetro edificio conosciuto come Convitto Pontano alla Conocchia fu costruito invece nel diciottesimo secolo, e inizialmente adibito a casa di villeggiatura per i membri del «Collegio del Salvatore» della Compagnia di Gesù. Per i gesuiti dunque, e non solo per loro, questo era un luogo di villeggiatura, ma a guastare l'amena atmosfera fu la persecuzione che a più riprese, in quei turbolenti anni, colpì gli eredi di Ignazio di Loyola, espulsi e riammessi più volte dai sovrani borbonici fino a quando Giuseppe Garibaldi, nel 1860, in qualità di dittatore di Napoli, non decise di sequestrare gli edifici religiosi, tra i quali l'oscura, inquietante Conocchia.

L'antico convitto passò così nelle mani dello Stato, e sul finire dell'Ottocento divenne un lazzaretto per i malati durante le epidemie di colera. Nel 1884 apparve all'ingresso re Umberto I, per portare conforto ai colerosi. «A Pordenone si fa festa, a Napoli si muore: vado a Napoli» fu la storica frase pronunciata da Umberto e ricordata nella stele dedicata al re in via Santa Teresa degli Scalzi. Un blitz, quello nella città colpita dal colera, che passò alla storia anche per l'incontro tra re Umberto e il cardinale Sanfelice e che segnò l'avvio del disgelo tra Stato e Chiesa dopo la breccia di Porta Pia e la presa di Roma.

Storia dal finale inglorioso, quella della Conocchia. Nell'aprile del 1886 divenne sede del Convitto Pontano (le cronache ricordano l'inaugurazione da parte del cardinale Sanfelice), poi di un istituto tecnico industriale, il «Francesco Giordani». E proprio con il trasferimento del «Giordani» a Fuorigrotta l'ex convitto comincerà ad essere aggredito dalla vegetazione, fino a esserne ingoiato. Letteralmente. Dopo il sisma del 1980 l'edificio è stato definitivamente abbandonato, è diventato un non luogo. Oggi l'ingresso è sbarrato e vi troneggia un'enorme quantità di rifiuti e materiali di risulta. Chi si avvicina troppo alla Conocchia lo fa a proprio rischio e pericolo.
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Per entrare nell'ex collegio dei Gesuiti - cosa assolutamente non consigliabile, dato che l'edificio è pericolante e quasi tutti gli intonaci sono crollati - bisogna scavalcare le recinzioni poste nel corso degli anni per evitare l'invasione di balordi e senza fissa dimora. I sotterranei dell'edificio, che attraverso tortuosi percorsi conducono fino al cimitero delle Fontanelle, furono utilizzati in passato come nascondiglio e deposito di armi dai clan camorristici della zona.

All'interno lo spettacolo è impressionante. Il grande teatro al piano terra è ridotto a un cumulo di macerie, la cappella è stata saccheggiata più volte, i corridoi sono ingombri di calcinacci e maleodoranti di muffa, dalle pareti scrostate una scritta ci viene incontro dal passato, «Non temere né freddo né lacrime». Questo è un luogo di spettri. Ma dal terrazzo si gode di una vista spettacolare, è la stessa che invase l'anima di pittori e paesaggisti della Scuola di Posillipo come Teodoro Duclère, Anton Smink Pitloo e Giacinto Gigante, che nel 1844 salì sul tetto di quel paradiso in terra per dipingere il suo famoso Napoli dalla Conocchia.

A poca distanza da questo luogo, nei pressi dell'ospedale San Gennaro, parte il sentiero dello Scudillo, una stradina stretta e ripida che, così come il mausoleo della Conocchia, esisteva già ai tempi dei romani. Percorso oggi impraticabile, dichiarato pericolante nel 1987 in seguito al crollo di una parete di tufo, ma un tempo importantissimo perché collegava la Sanità con la parte alta della città (sbuca ai Colli Aminei, all'altezza di via Nicolardi) e per questo motivo scelto come luogo di residenza nel 700 da molte famiglie nobili napoletane. L'antico e nobile Scutillum ha pagato un prezzo altissimo soprattutto alla costruzione della Tangenziale, i cui piloni furono costruiti proprio sopra la Salita, trasformando la parte sottostante in un deposito di materiali di risulta. Oggi l'antica strada dello Scudillo è ridotta a giungla, proprio come la sottostante area della Conocchia, simboli - l'una e l'altra - della città che dimentica il suo passato, e lo mortifica facendo avanzare il degrado. 
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