L'aceto dei quattro ladroni
e le memorie tristi
del lazzaretto di Napoli

L'aceto dei quattro ladroni e le memorie tristi del lazzaretto di Napoli
di Vittorio Del Tufo
Domenica 19 Aprile 2020, 20:00
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«È la peste che fa cessare gli assedi.
È la peste che impone la tregua
agli eserciti moribondi»

(Francesco Santoianni, Topi).
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Spesse mura di cinta, e confinamento forzato, per isolare totalmente i focolai di contagio. C'è stato un tempo, ed è un tempo di cui non dovremmo disperdere la memoria, in cui l'unica difesa possibile dalla diffusione delle pestilenze - che per secoli hanno afflitto l'Europa causando centinaia di migliaia di morti - era la creazione di invalicabili cordoni sanitari per impedire che il morbo si propagasse. Nacquero così i famigerati lazzaretti, luoghi di confinamento e di isolamento per portatori di malattie contagiose, in particolar modo di lebbra o di peste. Nelle città di mare, in particolare, persone e merci provenienti da paesi di possibile contagio dovevano trascorrere un periodo di isolamento la cui durata, spesso, era di quaranta giorni (da cui il termine quarantena). Spesso, però, questo periodo durava ben più dei quaranta giorni e gli stessi lazzaretti si riempivano di ammalati che, a causa delle precarie condizioni igieniche, del sovraffollamento e della promiscuità, morivano nel giro di pochi giorni.

L'origine del nome - lazzaretto - viene comunemente fatta risalire all'isola veneziana di Santa Maria di Nazareth, su cui nel XV secolo sorse un luogo di quarantena chiamato nazzaretto. Nome successivamente distorto in lazzaretto anche per sovrapposizione, per così dire, con il più famoso lebbroso della storia, Lazzaro, protagonista della parabola evangelica.

Fino alla scoperta dell'origine microbica delle malattie infettive si riteneva che queste ultime si propagassero attraverso effluvi emanati da persone o cose, in particolare dalla posta o dalle carte in genere. Nacque così, non potendo le persone entrare ed uscire dai luoghi di quarantena (che nelle città di mare si trovavano spesso in corrispondenza delle coste) l'abitudine di espurgare la posta (unico strumento di comunicazione) attraverso metodi empirici che oggi fanno sorridere.
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C'è stato un tempo in cui anche Napoli aveva il suo lazzaretto. Si chiamava Isolotto del Coppino, o Chiuppino, e si trovava tra l'isola di Nisida e la terraferma, oggi inglobato (come un piccolo slargo) nel ponte di collegamento costruito nel 1934.

Il lazzaretto venne istituito tra il 1626 e il 1628, per ospitare i malati di peste. Le rovine dell'antico Isolotto di Chiuppino sono riconoscibili in vecchie stampe e in foto anteriori al 1934, anno in cui fu realizzata la strada-ponte.
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Nel libro Contagio, pubblicato dall'editore Musumeci nel 1999, Andrea W. D'Agostino, diabetologo di fama, docente e grande esperto di organizzazione dei sistemi sanitari nel periodo borbonico, attraverso la lettura e l'interpretazione di migliaia di documenti sanitari, ha descritto come il Regno delle Due Sicilie si fosse, in maniera straordinariamente moderna, organizzato per difendere le proprie coste e quindi il territorio interno dall'approdo di navi che potevano prevenire da porti lontani di città contagiate (va ricordato che le infezioni viaggiavano velocemente sulle navi: in particolare la peste ed il tifo petecchiale attraverso il vettore dei topi da sempre presenti nelle stive).

L'organizzazione era la seguente: ogni porto, o approdo, aveva una Deputazione di Sanità assimilabile ai nostri uffici di sanità marittima con a capo un deputato di sanità. La nave o il natante in arrivo si avvicinava al molo senza attraccare e porgeva attraverso una lunga canna al deputato di sanità la patente o Fede di sanità, un lungo documento emesso nel porto di partenza che dichiarava le condizioni di sanità pubblica del porto stesso e dell'equipaggio. Il deputato per prima cosa provvedeva alla profumazione o espurgo della lettera (non si usava il termine disinfezione che presuppone la conoscenza dell'origine microbica delle malattie infettive). I documenti cartacei venivano posti su una griglia ed esposti ai fumi di vari intrugli chimici o derivati da piante che venivano lasciati bruciare. In questo modo si credeva che gli effluvi venefici uscissero dalle lettere e si disperdessero nell'aria (come avviene oggi, il deputato si proteggeva il viso attraverso lunghi panni di lino). Per questo motivo i documenti a noi arrivati appaiono sempre inbruniti o bruciacchiati.

Nel diciottesimo secolo ebbe grande fortuna - come spiega all'Uovo di Virgilio il medico e professore Gerardo Corigliano, allievo di Andrea W. D'Agostino, di cui ha custodito la memoria e i documenti - il cosiddetto «aceto dei 4 ladroni» di cui si fece un enorme consumo durante la peste di Marsiglia del 1784-1787. Secondo la leggenda questo aceto preservò dalla peste quattro ladroni che durante la peste di Marsiglia avrebbero rubato, senza contagiarsi, dalle case di alcuni appestati, depredandone i cadaveri. I quattro ladroni si sarebbero poi salvati dalla condanna a morte rendendo nota la composizione della ricetta: piante fresche di assenzio, di menta, di ruta, di rosmarino; radice di calimo aromatico, corteccia di cinnamono, di noce moscata e così via.

Che gli odori avessero una virtù antipestilenziale è una nozione che risale a tempi lontani. Ai profumi si attribuivano speciali virtù terapeutiche, magiche e profilattiche.

La Patente di Sanità poteva essere pulita indicando che il vascello proveniva da un porto indenne da pestilenze o sporca. In questo caso tutto l'equipaggio veniva messo in quarantena o in contumacia in un apposito locale/ospedale che era il Lazzaretto. A Napoli questa complessa procedura si svolgeva nell'area oggi inglobata nell'istmo di collegamento tra Nisida e Coroglio, dove anticamente sorgeva il lazzaretto dell'Isolotto di Chiuppino. Quest'ultimo venne collegato a Nisida nel 1847, in era borbonica (la strada di collegamento tra Nisida e la terraferma risale, invece, al 1934).

Le Patenti di Sanità raccontavano anche la storia degli uomini che, di volta in volta, erano costretti ad affrontare le epidemie. Uomini dell'equipaggio con tutto il loro carico di speranze, sentimenti e paure. Spesso lo stesso vascello è stato tracciato in diverse Patenti di Sanità, una per ogni scalo effettuato. Si è potuto ricostruire, così, la storia di persone e cose, i percorsi dei vascelli, le traversìe, le tempeste, gli atti di altruismo eroico e quelli di vigliaccheria: i documenti sottratti alla furia del tempo sono spaccati di vita, e di dolore, in tempo di pestilenze.
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In una delle sue favole più belle, La leggenda dell'amore, Matilde Serao immaginò che Posillipo fosse «un giovane festevole senza chiasso e serio senza durezza: chi lo vedeva lo amava»; mentre Nisida, la sua regina di cuori, una donna fatta di «pietra levigata, dura e glaciale». Erano destinati a vivere uno di fronte all'altra, senza potersi toccare, divisi da un invalicabile istmo di terra. Quel piccolo istmo, o lembo di terra, conserva ancora oggi la memoria di un luogo dove gli uomini erano costretti a vivere senza poter toccare gli abitanti della terraferma. Un luogo, però, tutt'altro che mitico, o leggendario: il lazzaretto della città, monumento di pietra ad antiche paure che credevamo sepolte.
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