Una mensa, una tribù:
la Comune dei bambini
nei vicoli di Montesanto

Una mensa, una tribù: la Comune dei bambini nei vicoli di Montesanto
di Vittorio Del Tufo
Domenica 12 Dicembre 2021, 20:00 - Ultimo agg. 15 Dicembre, 07:00
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«Nessun bambino è perduto se ha un insegnante che crede in lui».

(Bernhard Bueb)

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La Casa dei Bambini si apriva su un giardino dove era stato piantato un albero di fico. L'androne, colorato di rosa, era quasi sempre inondato di sole. La Casa dei Bambini sorgeva in un angolo di Montesanto che un tempo faceva paura solo a nominarlo: le Cappuccinelle.

Si nun faje o bravo ti rinchiudo alla Cappuccinelle.

Le prime ad arrivare, alle Cappuccinelle, erano Costanza e Maria. Facevano le cuoche: ai bambini piaceva vederle cucinare. Il loro compito era dar da mangiare ai figli di un quartiere in miseria.

Poi arrivava Goffredo Fofi, che era uno dei fondatori. Lui organizzava gli incontri, i seminari, i dibattiti, ma quando c'era da lavare padelle, piatti e pentoloni non si tirava indietro. La Mensa era una grande tribù aperta. I bambini si accalcavano nell'androne buio di un palazzo umido e scorticato. Alcuni avevano il grembiule della scuola, altri venivano dalla bottega di qualche mastro. I volti magri, gli occhi vivissimi di bambini già adulti.

Uno dei capi di quella strana tribù era Geppino Fiorenza. Lui aveva la scorza dura perché aveva partecipato alle lotte dei baraccati di via Marina. Venne a Geppino, e ai suoi compagni di strada, nel 1972, l'idea di regalare i pasti agli scugnizzi di Napoli, soprattutto i figli di quel quartiere malandato, dove molte famiglie non avevano i soldi per mettere insieme il pranzo con la cena.

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Nel ventre antico di una città ancora largamente afflitta dalla miseria, fu inaugurata, il 9 marzo 1973, la Mensa dei Bambini Proletari, che fino al 1980 sarebbe stata un punto riferimento per tutti coloro che avevano scelto di mettere i bambini - gli scugnizzi di Napoli, e in particolare quelli di Montesanto - al centro della loro azione pedagogica, sociale e culturale. La Mensa era nata dall'incontro di due componenti del movimento napoletano del dopo 68 - i cattolici di base e Lotta Continua - ma si aprì presto ad altri contributi, a nuove esperienze, attirando volontari di ogni età e di origini, appartenenze e culture diversissime tra loro. Fu dunque un'esperienza pedagogica, assistenziale, culturale e politica nata - negli stessi anni in cui esplodeva il terrorismo - con l'obiettivo di offrire accoglienza e sostegno alla parte più diseredata di una città anch'essa diseredata.

L'intuizione fu di Fiorenza, Cesare Moreno, Carla e Luisa Melazzini, Berit Frigaard Buonomo. Geppino Fiorenza, psicologo, proveniva dall'esperienza della Casa dello Scugnizzo di don Mario Borrelli e dal gruppo dei cattolici di sinistra di Tonino Drago, che nel 1969 aveva guidato gli sfrattati di via Marina nelle lotte per il diritto alla casa. Nell'anno del colera, il 1973, la Mensa diventò il cuore della Napoli progressista, attivando un centro medico grazie anche all'équipe di Basaglia, con Luciano Carrino, Piero Cerato, Roberto Landolfi. Potette contare sin dall'inizio su numerosi amici e sostenitori, come Eduardo De Filippo, Norberto Bobbio, Elena Brambilla Pirelli, Erica Olivetti Bin, Antonio Ghirelli, Camilla Cederna, Dario Fo, Franca Rame, Elsa Morante, Fabrizia Ramondino, Davide Maria Turoldo, Ernesto Balducci, Sergio Piro, Vera Lombardi, Mirella Barracco, Vincenzo Siniscalchi, Marinella de Nigris, Annamaria Palermo, Pinotto Merlino, Maurizio Valenzi, Luigi Comencini, Erri De Luca, Peppe Avallone, Domenico De Masi, Adele Nunziante Cesaro e tanti altri. Primi storici animatori, che continueranno negli anni l'esperienza iniziale con la cooperativa «Lo Cunto de Li Cunti», Cinzia e Lucia Mastrodomenico e Peppe Carini, con un'altra foltissima schiera. «Volevamo dare l'esempio - ricorda Fiorenza - per dimostrare che anche nei quartieri più degradati era possibile organizzare la gente intorno ai propri diritti, sconfiggendo l'atavico fatalismo».

Berit Frigaard Buonomo era una trentenne norvegese, aveva insegnato nelle periferie povere di Oslo ed era arrivata a Napoli alla fine degli anni Cinquanta, spinta dall'amore per il marito Elio e per i Sud del mondo. Fu lei, nel luglio del 72, la prima a raccontare, a un giornale norvegese, che a Napoli stava nascendo qualcosa di nuovo, di straordinario.

Pino Simonelli scriveva su Ord & Bild. All'iniziativa, quando a Napoli se ne sapeva ancora poco, aderì un gruppo di anarchici norvegesi, organizzando un concerto per raccogliere i fondi. Quando il presidente della Repubblica, il napoletano Giovanni Leone, lo venne a sapere scoppiò un putiferio, venne addirittura inviata una nota ufficiale di protesta al governo norvegese, come ricorda Generoso Picone nel suo libro

I napoletani: «Fu il primo attacco alla Mensa, prima ancora che venisse inaugurata. Trattare a Napoli argomenti come lo sfruttamento, la fame e il maltrattamento dei bambini era, al netto del sentimentalismo, decisamente rischioso». Con Fiorenza uno dei promotori dell'iniziativa era stato Cesare Moreno, pedagogista ed in seguito punto di riferimento dei «Maestri di strada». Cesare ha dedicato l'intera vita a costruire un modello di scuola dal volto umano, promuovendo con la moglie Carla Melazzini (scomparsa nel 2009) e Marco Rossi Doria il progetto Chance, la cosiddetta scuola della «seconda opportunità».

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La città, in quegli anni, era attraversata da forti correnti di rinnovamento, che poi condussero alle vittorie elettorali della sinistra nel 1975 e nel 1976, aprendo la strada alla stagione di Maurizio Valenzi. E proprio dalla giunta Valenzi arrivarono i pochi (e unici) finanziamenti pubblici. Il Pci guardava dall'alto, un po' sprezzante. «Ci considerava dei gruppettari, dei populisti», ricordò, nel 93, la scrittrice Fabrizia Ramondino. Al centro dell'impegno politico e pedagogico della Comune di Montesanto vi furono sin dall'inizio i bambini. Bambini da nutrire, innanzitutto. Ogni mattina, gli attivisti più esperti della Mensa andavano nei mercati ed al negozio dei Buglione a comprare gli alimenti; le cucine servivano 150 bambini, figli del quartiere: era il popolo delle Cappuccinelle.

Ma i bambini di Montesanto non andavano nutriti solo nel corpo. In una città dove il diritto all'infanzia era spesso calpestato, e i tassi di dispersione scolastica altissimi, l'obiettivo degli animatori era quello di offrire ai ragazzi del quartiere gli strumenti per renderli consapevoli dei propri diritti, insegnando loro a pensare con la propria testa. Sullo sfondo c'era il pensiero pedagogico di Benjamin, gli insegnamenti di don Milani. Una singolare e proficua contaminazione tra cattolicesimo e marxismo, che giocò sull'antica e odiosa vulgata dei «comunisti che mangiavano i bambini» per ribaltare (letteralmente) il concetto. «Noi non vogliamo mangiare i bambini, ma dare loro da mangiare» era lo slogan, rilanciato da Fabrizia Ramondino in un articolo su Il Mattino del 12 febbraio dell''83. Ma ben al di là degli aspetti caritatevoli, che pure furono importanti, la Mensa era un progetto politico, e infatti nei primi anni 90, con Bassolino sindaco, l'esperienza confluì nel gruppo Napoli bambini d'Europa. Ed intanto il Centro di documentazione e Ricerca contro la camorra, nato con Luciana Vecchio e Vittorio Dini, oggi con l'acronimo AsCenDeR, continua le sue attività di inchiesta, progettazione, formazione, anche in collaborazione con la Fondazione Pol.i.s, Libera e la Fondazione Giancarlo Siani Onlus.

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A partire dal 1977, non riuscendo più a sostenere le spese per il vitto, la Mensa fu costretta gradualmente ad eliminare il pasto giornaliero, conservando però tutte le attività di animazione, dal teatro al giornalismo alle grandi costruzioni allestite da Peppe Carini. Iniziative per gli anziani e Scuola Popolare di Musica con Peppe Merlino e Pasquale Scialò. L'ultimo regalo: una magica serata in giardino con Sergio Bruni e Salvatore Palomba.

Ciro, Enzuccio, Paperino, Peppe, Anna, Teresa: dove siete adesso? L'antico palazzo di Vico Cappuccinelle a Tarsia, interno 13, oggi è un luogo della memoria. Ospita un elegante ostello-vacanza, il cui giardino guarda il muro di quello stesso convento che un tempo faceva paura ai bambini. Si nun faje o bravo ti porto alle Cappuccinelle. È il giardino nel quale i bambini poveri di Napoli, per una breve ma esaltante stagione, fondarono davanti a un albero di fico la loro Comune. 

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