Dove volò il Pellicano,
storie d'amore e sangue
nella città senza pace

Dove volò il Pellicano, storie d'amore e sangue nella città senza pace
di Vittorio Del Tufo
Domenica 10 Aprile 2022, 20:00
6 Minuti di Lettura

«Questi è colui che giacque sopra l petto del nostro pellicano»

(Dante, Divina Commedia, Paradiso Canto XXV)

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Questa è la storia di un pellicano che si lacera il petto per nutrire i suoi figli con il suo stesso sangue, simbolo del sacrificio di Cristo. Ma è anche la storia di un capolavoro di cui, nel corso degli anni, ladri e trafficanti d'arte avevano fatto scempio: il Tabernacolo di Santa Patrizia di Cosimo Fanzago. Capolavoro rimontato pezzo a pezzo dopo una lunga odissea: dapprima il furto dei suoi ornamenti più preziosi (le tre Virtù e il Pellicano) dalla chiesa di Santa Patrizia, nei primi anni 70, poi un complesso restauro, infine il ritrovamento ad opera dei carabinieri del nucleo per la tutela del patrimonio culturale di Napoli e Firenze.

Il Tabernacolo di Fanzago, finalmente ricostruito, è in questi giorni esposto al pubblico in occasione della grande mostra «Oltre Caravaggio», dedicata ai capolavori del 600 napoletano e in programma fino al 7 gennaio 2023 nel museo di Capodimonte. Un lungo viaggio (con oltre 200 opere provenienti tutte dalle collezioni permanenti del museo, senza prestiti esterni) tra i tesori d'arte di un secolo che fu, naturalmente, di Caravaggio, ma anche di personaggi del calibro di Jusepe de Ribera, lo Spagnoletto arrivato a Napoli nel 1616, sei anni dopo la morte di Michelangelo Merisi, e da Napoli fu praticamente adottato; e poi di Dominichino, Guido Reni, Belisario Corenzio, Battistello Caracciolo, Massimo Stanzione, Luca Giordano e tanti altri artisti che contribuirono a fare di Napoli un crocevia di culture in un secolo di grandi tragedie ma anche di straordinari fermenti.

Secolo sul quale lasciò un'impronta anche Cosimo Fanzago, il grande scultore e architetto bergamasco che fu tra i massimi esponenti del barocco napoletano. Il monumentale Tabernacolo di Santa Patrizia, vera e propria architettura in miniatura, sarà uno dei pezzi forti del percorso museale ideato da Stefano Causa, docente di Storia dell'arte moderna e contemporanea presso l'Università Suor Orsola Benincasa e Patrizia Piscitello, responsabile Ufficio mostre e prestiti del Museo e Real Bosco di Capodimonte.

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«Questo porta grande amore a' sua nati, e trovando quelli nel nido morti dal serpente, si punge a riscontro al core, e col suo piovente sangue bagnandoli li torna in vita» (Leonardo da Vinci)

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Alcune foto scattate alla fine degli anni Sessanta nella chiesa di Santa Patrizia documentano il Tabernacolo di Fanzago ancora integro, con il ricco corredo di bronzetti ed elementi ornamentali in bronzo dorato che inquadravano commessi marmorei e pietre dure. Dopo meno di un decennio gran parte dei Cherubini, le tre Virtù e il Pellicano erano spariti, portati via da mani avide, cui non era sfuggita l'importanza (ma anche la rarità) del corredo in bronzo dorato. L'iconografia del pellicano è ben nota ai trafficanti d'arte. Il maestoso uccello, che spenna il suo petto con il lunghissimo e largo becco, nell'iconografia cristiana rappresenta Gesù che ci nutre con il suo sangue. Anche Dante, nella Divina Commedia, chiama Cristo «il nostro Pellicano», riferendosi all'Apostolo Giovanni che «giacque» sopra il suo petto (Paradiso, canto XXV).

Nel 1983 l'opera di Fanzago, orfana dei suoi preziosissimi arredi, venne portata a Capodimonte, sottoposta a restauro ed esposta nella celebre mostra dedicata alla Civiltà del Seicento a Napoli. Trent'anni dopo, nella primavera del 2013, Paola D'Agostino, direttrice dei Musei del Bargello a Firenze, riconosceva le Virtù trafugate dal tabernacolo napoletano in quelle conservate nel Museo Amedeo Lia di La Spezia. Primo intervento dei carabinieri del nucleo per la tutela del patrimonio culturale e primo recupero. Nel 2014 le Virtù furono ricollocate sul Tabernacolo ma prive del loro fedele compagno, il Pellicano che nutre i figli con il suo sangue. Un'opera che rivela tutta l'abilità di Fanzago - e dei marmorari che lo affiancarono nell'esecuzione, gli intagliatori e artigiani del marmo Nicola Botti, Romolo e Bartolomeo Balsimelli - nel realizzare bronzi di piccolo formato concepiti con l'attenzione minuziosa di un orefice.

Un lavoro strabiliante: dal petto dell'uccello sgorga un fiotto di sangue mentre le zampe sono circondate da altri tre piccoli pellicani, fusi separatamente e poi avvitati alla base.

Il Tabernacolo (o Ciborio) di Cosimo Fanzago, finalmente ricostruito dopo gli scempi e le ruberie, farà dunque parte del percorso di visita della mostra di Capodimonte. A commissionarlo, nel 1619, erano state le monache benedettine del complesso di Santa Patrizia, tra i monasteri più ricchi e privilegiati dalla nobiltà napoletana. Costò 5000 ducati, all'epoca una cifra enorme, a testimonianza della ricchezza di quel luogo di culto.

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«Per un organismo (il museo) che contiene il passato, ma si confronta quotidianamente con il presente, credo che veramente la più grossa contraddizione sia la pretesa di rimanere immobile» (A. Lugli, L'educazione estetica)

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Il 600 napoletano è spesso identificato come il secolo di Caravaggio. Un paradigma che i curatori della mostra - Stefano Causa e Patrizia Piscitello - intendono scardinare con un percorso che guarda, come recita il titolo, oltre Caravaggio. Michelangelo Merisi soggiornò a Napoli due volte (dall'ottobre 1606 al giugno 1607 e dall'ottobre 1609 al luglio 1610, per un totale di 18 mesi), immergendosi in un'immensa capitale mediterranea, ma anche in una realtà quotidiana violenta e disperatamente popolare. All'alba del 600 Napoli è una delle città più popolose d'Europa, seconda per densità solo a Parigi. Conta circa 450mila abitanti, e viverci è complicato: il divario tra aristocrazia e popolo è immenso, la ricchezza è concentrata nelle mani di poche famiglie; tutti gli altri, lazzari e disperati, si dividono i resti. Di Caravaggio il nuovo percorso museale propone la Flagellazione di Cristo, il celebre dipinto realizzato tra il 1607 e il 1608 e commissionato per adornare la cappella della famiglia de Franchis nella Chiesa di San Domenico Maggiore (a Capodimonte dal 1972).

A Napoli, in quegli anni, arrivano anche Fanzago (1608) e Jusepe de Ribera, spagnolo di nascita (1616), stabilendosi entrambi in città fino alla morte. Per la loro presenza stabile sul territorio e la formazione di articolate botteghe che lavoravano sui modelli dei maestri, i due artisti, a giudizio dei curatori della rassegna, sono da considerare le «personalità cruciali per gli sviluppi della cultura figurativa» nel Viceregno. Di Ribera sono esposte la Natura morta con testa di caprone, l'Eterno Padre, proveniente dalla chiesa della Santissima Trinità delle Monache a Napoli come pure la Trinitas terrestris con san Bruno, san Benedetto, san Bernardino e san Bonaventura e, ancora, San Girolamo e l'angelo del Giudizio, del 1626. Quest'ultima fu un'opera di capitale importanza per la scena napoletana. La scena ritrae san Girolamo nell'atto di tradurre la Bibbia sorpreso dall'angelo del Giudizio, con il corno, che appare tra le nuvole.

Il Seicento verrà ricordato anche per l'esplosione di una vitalità e di una creatività artistica senza precedenti. A Napoli la peste imperversò nel 1656, nove anni dopo la rivolta di Masaniello, mietendo più di duecentomila vittime, circa la metà della popolazione. Per i pochi artisti sopravvissuti, quel flagello fu una grande occasione di racconto: alla Grande Peste si richiamano, più o meno direttamente, i dipinti più famosi eseguiti alla fine degli anni '50 dei Seicento. Come il celebre San Gennaro intercede per le vittime della peste di Luca Giordano, opera commissionata dal viceré spagnolo Guzmán per la Chiesa di Santa Maria del Pianto come ex voto per il cessato pericolo dopo l'epidemia. Il grande pittore napoletano, che quando esplose la peste aveva 22 anni, vi raffigura uno scorcio urbano, con i cadaveri in attesa di essere portati via dai monatti con la mascherina, per difendersi dal contagio. 

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