Quel sindaco scellerato
che volle cambiare
il nome di via Toledo

Quel sindaco scellerato che volle cambiare il nome di via Toledo
di Vittorio Del Tufo
Domenica 3 Maggio 2020, 20:00
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«Soltanto qualche provinciale appena inurbato, e non esperto degli usi della metropoli, si attiene al toponimo Roma come di cosa più moderna e più raffinata»
(Gino Doria, Via Toledo).
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Fischi e pernacchie. Reagirono così i napoletani - con fischi e pernacchie - quando Paolo Emilio Imbriani, che fu sindaco della città dal 1870 al 1872, decise di mutare il nome di via Toledo in quello di via Roma, neocapitale del Regno d'Italia. Decisione scellerata che gli costò la reprimenda di numerosi intellettuali, urbanisti e studiosi del calibro di Bartolommeo Capasso, il quale sostenne che, con la nuova denominazione, Imbriani avesse «disconosciuto la storia». La maggioranza dei napoletani la pensava come don Bartolommeo, tanto che lo stesso Imbriani arrivò a far sorvegliare le nuove targhe da guardie municipali temendo che i cittadini le infrangessero a colpi di sassi.

Tuttavia il danno era fatto, e ancora oggi ne paghiamo le conseguenze. Al punto che molti napoletani semplicemente ignorano l'origine del toponimo, che ci riporta a un passato leggendario: agli anni in cui Pedro Álvarez de Toledo y Zúñiga, il mitico vicerè don Pedro de Toledo, calò il pugno di ferro su Napoli, governando per ventuno anni (dal 1532 al 1553) e trasformando la città in una delle roccaforti più impenetrabili dell'impero spagnolo. Quella che molti napoletani - orrore - si ostinano a chiamare via Roma, porta il nome di don Pedro, o meglio quello della sua città di origine: Toledo.
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Ci sono libri che andrebbero letti e riletti più volte, possibilmente anche tra i banchi di scuola. Uno di questi libri, per l'Uovo di Virgilio, è Rileggere Napoli nobilissima, dello storico dell'architettura Renato De Fusco. Dal quale apprendiamo che la nuova arteria, tracciata nel 1540, si collocava perfettamente in linea con quanto stava accadendo nelle principali città italiane in quello stesso periodo: a Palermo si apriva la via Maqueda; a Genova, distante dal centro antico, si costruiva la via Nuova. Via Toledo fu completata nel 1559 e nello stesso anno fu pure tracciato, in conformità al piano di don Pedro, l'asse di via Medina-via Monteoliveto, destinato ad assicurare il collegamento della zona portuale e commerciale con via Toledo e con il nuovo quartiere (vedi anche Alisio-Buccaro, Storia e disegno urbano nell'area di Montecalvario). Nel 1536, dunque, il vicerè di Napoli commissionò la nuova strada agli architetti regi Giovanni Benincasa e Ferdinando Manlio, i due grandi protagonisti del piano di rinnovamento urbanistico voluto da don Pedro.

Il tracciato della strada, in un primo momento, si affiancò alle mura aragonesi, che furono poi demolite per fare spazio alle nuove strutture difensive volute da don Pedro. L'arteria, lunga più di un chilometro e larga 15 metri, fu presto fiancheggiata da file di eleganti edifici, abitati da nobili napoletani e da funzionari spagnoli. Sul lato orientale, nel quartiere della Corsea, sarebbe poi nato il rione Carità, dal nome della chiesa di Santa Maria della Carità eretta alla metà del Cinquecento. Sul lato opposto (strategicamente vicino a Castel Nuovo e al Palazzo vicereale, i centri del potere politico) furono realizzate invece le costruzioni destinate agli alloggiamenti per le truppe spagnole e le loro famiglie. Nacquero così, impostati su una maglia a scacchiera con sei strade parallele a via Toledo e numerose altre piccole vie perpendicolari, i Quartieri Spagnoli.

Cinque secoli dopo gli anni di don Pedro, Napoli non ha dimenticato il suo monumentale vicerè, il cui sepolcro sorge nella basilica di San Giacomo degli Spagnoli, all'interno di Palazzo San Giacomo. Il monumento sepolcrale fu scolpito nel 1570 da Giovanni da Nola, su volontà dello stesso viceré di Napoli, che però morì prima della conclusione dei lavori del sarcofago, venendo così sepolto all'interno del duomo di Firenze.
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Bisognerebbe provare ad immaginarsela, via Toledo prima di via Toledo. A quei tempi un'enorme fogna a cielo aperto da Montesanto incanalava verso il mare le acque reflue provenienti dalla collina vomerese. Si chiamava Chiavicone e il grande Carlo Celano lo descrisse così: «È da sapersi che sotto di questa strada vi è un condotto, o chiavicone, così ampio e largo che adagiatamente camminar vi potrebbe una carrozza per grande che fosse (...). In questo chiavicone entrano quasi tutte le acque piovane, che scendono per diversi cammini dal monte di San Martino». (Celano, Notizie del bello, dell'antico e del curioso della città di Napoli).

Via Toledo, dunque, coprì il percorso del Chiavicone, trasformato in un collettore fognario. Anticamente questo era il letto del leggendario fiume Sebeto. Una sera del 1971 il più grande esperto di sottosuolo della città, Clemente Esposito, fu chiamato d'urgenza dai tecnici del Comune perché in largo Carità una fogna era scoppiata e nella voragine che ne era scaturita si vedevano accessi a misteriosi cunicoli. Ricorda Esposito: «Cominciai a scendere per raggiungerli e, dopo appena qualche metro, sentii dei grossi tonfi come se tutta la fogna stesse sprofondando in un mare di acqua: invertii immediatamente il senso di marcia e, come un fulmine, raggiunsi l'uscita alla velocità dei cartoni animati. Uscito all'imbocco del tombino, vidi le facce stupite dei fognatori, allora gridai: Sta crollando tutto, si sentono tonfi di grossi blocchi che cadono in acqua. Scoppiarono a ridere: Ingegnè non ve preoccupate, song e machine che passano ncopp e saettelle». Il traffico che continuava a scorrere su via Toledo provocava rumori che venivano amplificati come tonfi! Memorie del sottosuolo».
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Centocinquanta anni. Tanti ne sono passati da quando il sindaco Imbriani, insolfato da Casa Savoia, decise di mutare il toponimo in onore della neocapitale. Era il 1870, e via Toledo era già da tempo meta di pellegrinaggio di grandi scrittori provenienti da ogni parte del mondo. Per Melville «difficilmente la si distingueva da Broadway», per Stendhal era «un tripudio di colori e gioia». Mezzo consiglio comunale insorse e soprattutto insorsero i cittadini, i quali si riunirono in comitato (il Comitato Pro via Toledo) con l'obiettivo di far cambiare idea allo scontroso sindaco. Il quale, come unica concessione, fece aggiungere alle nuove targhe la dicitura già via Toledo. Magra consolazione. All'incazzatissimo Bartolommeo Capasso si associarono tantissimi cittadini e numerosi storici. Ferdinand Gregorovius, in particolare, scrisse parole ancora oggi attualissime: «I nomi antichi delle strade sono come tanti titoli de' capitoli della storia della città, e vanno rispettati e mantenuti quali monumenti storici del presente». Ma Imbriani fu perentorio e solamente nel 1980 l'amministrazione Valenzi ebbe il merito di porre rimedio al torto e ripristinare l'antico toponimo. Sia fatta la volontà di don Pedro.
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Di notte, in questo tempo sospeso di quarantena e divieti, via Toledo, sempre affollatissima, è desolatamente spettrale, come il resto della città. Forse proprio adesso, però, mostra il suo volto più autentico. Perché conserva in ogni sua ombra, in ogni sua pietra, in ogni suo silenzio, le memorie di un passato leggendario, che appartiene a tutti noi.
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