Il pittore ha poeti a cena:
la vita a regola d'arte
nella villa firmata Berté

Il pittore ha poeti a cena: la vita a regola d'arte nella villa firmata Berté
di Vittorio Del Tufo
Domenica 12 Giugno 2022, 20:00
6 Minuti di Lettura

«Ci sono anime
sulle quali viene voglia di affacciarsi
come ad una finestra piena di sole»

(Federico Garcia Lorca)

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Se le case hanno un cuore, che continua a battere anche quando vanno in rovina, il cuore che batte a Torre Caselli è quello di Antonio Berté, che vi abitò dal 1969 fino alla fine degli anni Ottanta. Il pittore napoletano, scomparso nel 2009, amava a tal punto questa splendida villa settecentesca, più conosciuta come il Castello dei Colli Aminei, da considerarla alla stregua di un suo dipinto. E infatti, un giorno, decise di apporvi la propria firma. Un autografo d'autore. E un gesto d'amore per un luogo che considerava ideale per la sua creatività bisognosa di luce. Una foto scattata nel 1970 ritrae il celebre artista davanti alla facciata della dimora, sotto la torre centrale, e in primo piano campeggia proprio la firma - A. Berté - rimasta visibile fino a pochi anni fa e poi a lungo coperta da un osceno murale. Già, perché Torre Caselli, o Villa Berté, è stata per anni irriconoscibile. Una casa di fantasmi senza più pittori, teatro d'ombre e di ruderi, luogo della memoria. Una lunga e complicata vicenda giudiziaria, finanche gli appetiti della camorra. Poi finalmente la svolta, con l'acquisto della proprietà (3.400 metri quadri) da parte di una società immobiliare e i lavori di restauro che porteranno al recupero della splendida torre merlata visibile a chilometri di distanza.

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A Berté quella casa nel più ameno dei Colli doveva sembrare un'enorme tavolozza. La trasformò, negli anni 70, in un cenacolo d'arte e cultura, popolato da una straordinaria schiera di pittori, scrittori, musicisti, giornalisti, da Domenico Rea a Michele Prisco, da Emilio Notte a Maurizio Valenzi, da Aldo De Francesco a Nello Pandolfi, da Aldo Angelini a Amedeo Clarizia, da Alfredo Schettini a Antonio e Rosalba Pecci, da Roberto Murolo a Nunzio Gallo, da Albino Froldi a Gabriele Zambardino, e tanti altri: Carmine Vitagliano, Gaetano Palisi, Aristide La Rocca, Michele Loria, Silvio Mastrocola. Il ricordo dei funambolici raduni in casa di Antonio Berté e della moglie Livia, insegnante, è ancora vivo in quanti vi hanno partecipato.

Un tempo Torre Caselli, con la sua inconfondibile torretta rossa visibile dai Colli Aminei e da via Pietravalle, era la villa di campagna dei marchesi Caselli. L'indirizzo preciso è Cupa Imparato, una stradina silenziosa che fa da svincolo d'uscita per la zona ospedaliera. Il rosso pompeiano della dimora settecentesca è scolorito come i ricordi, eppure nel castelletto dei Colli Aminei si sono intrecciati i fili di mille esistenze. I Caselli, originari della Calabria, avevano scelto come dimora di famiglia uno dei casali sorti nella zona dello Scudillo e del Vallone San Rocco tra il 600 e il 700. Il paesaggio incantato della campagna, i fitti boschi dove un giorno sarebbero sorti grandi ospedali: qui la città non era ancora arrivata. Nel 1969 la villetta fu presa in affitto dal pittore napoletano Antonio Berté, che ne fece dapprima il proprio studio e poi la sua abitazione. Così vi si stabilì assieme alla moglie Livia, che a Villa Berté aprì anche una scuola privata, la Apollo 11, in onore dello sbarco dell'uomo sulla Luna.

Torre Caselli divenne ben presto uno spazio collettivo, un circolo aperto, dove convivevano adulti e bambini, ma soprattutto artisti di diverse generazioni, in un'atmosfera bohémien. Il padrone di casa, laureato in lettere classiche, aveva cominciato la sua carriera come giornalista per poi dedicarsi anima e corpo, come autodidatta, all'arte e alla pittura. Tra i suoi riferimenti più cari v'erano Giorgio De Chirico, Emilio Notte, Renato Guttuso e i poeti Carlo Bo e Giuseppe Ungaretti. Con quest'ultimo, in particolare, nacque un sodalizio molto intenso. Anche il grande poeta, scomparso il 1 luglio 1970, frequentò Berté; dopo la sua morte il pittore napoletano inaugurò i cicli tematici dedicati ai grandi della letteratura: memorabile l'omaggio a Federico Garcia Lorca, un catalogo in cui ogni dipinto è associato ai versi del poeta con una scelta precisa, costituendo un percorso nell'opera di Lorca illustrato e spiegato per mezzo della pittura. «Mi sembra - scrisse Carlo Bo nella prefazione - che il pittore abbia colto gran parte della poesia di Lorca o, per meglio dire, sia entrato direttamente nel cuore del grande poeta».

Altri cicli tematici furono da Berté dedicati a Manzoni, Kafka, Eduardo, Pirandello, Di Giacomo e Leopardi. Ma anche al sisma che sconvolse l'Irpinia nel 1980, evento che colpì profondamente l'artista spingendolo a mettere ampi spazi della villa e del giardino a disposizione dei terremotati.

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«Antonio - ricorda il giornalista e scrittore Aldo De Francesco, frequentatore assiduo di Torre Caselli - era un grande artista, formatosi in un'antica bottega napoletana, dove si impastavano ancora i colori per tabernacoli e pale d'altare, poi divenuto popolare per la sua pittura originale, apprezzata dal gotha dell'arte, da De Chirico a Campigli, a Guttuso. E non solo, anche Ungaretti colse nella pittura di questo artista tracce, fondali concreti della sua poesia, che si interrogava sul misterioso destino dell'uomo. Un artista aperto, estroverso mai ombroso, che si faceva voler bene per la sua grande umanità: una straordinaria vocazione per socialità e convivialità, anche da docente nelle scuole medie, sulla scia di John Keating, l'insegnante anticonformista, rivoluzionario, estroso della trama del film l'Attimo fuggente». L'atelier di Berté, al secondo piano della villa, era un caravanserraglio di tele, cavalletti, manichini, pile di giornali, quadri esposti o nascosti, dove l'artista passava larga parte del giorno e anche della notte a dipingere. Ricorda ancora De Francesco: «Di solito agli artisti piace lavorare in solitudine, anzi sono gelosissimi anche del loro modo di tenere il pennello e spalmare i colori, a Berté piaceva invece lavorare in compagnia, sentirla ne stimolava la creatività. Dipingeva e sorrideva, riceveva gente da mezza Italia, personaggi molto autorevoli incuriositi dalla sua arte, accolti sempre con la massima naturalezza e non si mostrava mai infastidito per qualche accenno frequente di ammuina nel suo studio. Senza accorgercene si era creato un salotto, frequentato da artisti, scrittori, giornalisti, mercanti d'arte e amanti della pittura».

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Berté lasciò la villa nel 1988, mantenendovi l'atelier per alcuni anni. Poi si trasferì al Vomero, in via Bernini. Ma un mondo era finito, la maestosa torre merlata aveva smesso di attirare artisti provenienti da tutta Italia. La Casa dei Pittori ci mise poco tempo a diventare casa di fantasmi, un altro simbolo della città che dimentica il suo passato, e lo mortifica facendo avanzare il degrado. Lì dove c'era l'erba ora c'è una città, e quel polmone verde che un tempo doveva essere simile al paradiso - l'intera zona del vallone San Rocco, lo storico canalone naturale inglobato nell'area tra il nuovo Policlinico, il Frullone e i Colli Aminei, con le ville da favola che vi sorgevano, come quella dei marchesi Caselli - è stato a lungo un luogo della memoria al centro di infiniti progetti di riqualificazione, dannatamente belli, dannatamente immobili.

Per Villa Bertè il recupero è appena iniziato, il complesso sarà frazionato in più residenze con ampie aree verdi, terrazze e interventi architettonici di qualità. Ma ci mancherà quella firma d'autore - A. Berté - che per anni è stata il simbolo di un cenacolo d'arte e cultura che ha riunito, sotto una torre merlata, i migliori talenti e spiriti laici della città. 

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