Alcesti e il dio implacabile tra le ombre dell'Angiporto

Alcesti e il dio implacabile tra le ombre dell'Angiporto
di Vittorio Del Tufo
Domenica 20 Maggio 2018, 20:00
6 Minuti di Lettura
«Chi si uccide ammaina una bandiera
ma non tutte le vite sono uguali
né tutte le morti si ripetono
questo è l'uomo quando è reale
e vorrei ben capire come tu
che tanto in alto avevi levato
la bandiera della vita
l'hai voluta ammainiare
in un giorno di maggio»
(In morte di Renato Caccioppoli, Luigi Incoronato)


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La Fleet Street di Vico Rotto San Carlo - l'Angiporto Galleria - conviveva con la Broadway napoletana: la Galleria Umberto era anche crocevia delle attività di spettacolo. Case discografiche specializzate in melodie napoletane, ben tre cinema (il Colosseo, il Santa Brigida e l'Umberto) e agenzie di collocamento di attori, cantanti e soubrettes occupavano appartamenti e soffitte in Galleria.

Bisogna andare più indietro nel tempo, invece, per immergersi nell'epoca d'oro di Matilde Serao, fondatrice del Mattino assieme al marito Eduardo Scarfoglio; a donna Matilde è dedicata una lapide nella piazzetta che oggi porta il suo nome. Nel 1892 Scarfoglio e la Serao presero in affitto i locali al primo piano per trasformarli in redazione e in tipografia, mentre i sotterranei furono adibiti a sala macchine. Stanze mitiche, quelle dell'Angiporto, che furono frequentate da fior di poeti, come Giosuè Carducci («Vidi per la prima volta il Maestro seduto in una bassa e larga poltrona di cuoio, e di rispetto gli sedeva Eduardo Scarfoglio», ricorda Ferdinando Russo) e Gabriele D'Annunzio, che nella sede del Mattino comporrà numerose poesie che verranno poi pubblicate in prima pagina.

Gli anni di Mistero napoletano - il libro di Ermanno Rea di cui abbiamo parlato nella precedente puntata - furono anche gli anni del Mattino di Giovanni Ansaldo, che lo diresse dal 1950 al 1965, gestendo dunque il complicato trasloco dall'Angiporto Galleria a via Chiatamone. Fu Ansaldo a firmare - il 9 aprile 1950 - il lungo editoriale che segnò il ritorno del Mattino nelle edicole, dopo la lunga notte della guerra e la parentesi del Risorgimento (il quotidiano fondato a Napoli il 4 ottobre 1943, dopo la liberazione della città da parte degli Alleati, in sostituzione dei tre quotidiani partenopei all'epoca esistenti).

«Voleva diventare il giornalista di Napoli e lo divenne, intervenendo un po' su tutto e un po' su tutto esponendosi al giudizio dei lettori. I quali non tardarono a scrivergli, a salutarlo per strada nel suo percorso quotidiano dall'Angiporto Galleria a Palazzo Cellamare, a idoleggiarlo anche» (Il Mattino di Ansaldo, Arturo Fratta).

Anche Ansaldo, infatti, come Caccioppoli, abitava nel palazzo che aveva ospitato Goethe. Tale era la sua popolarità che tra i lettori si diffuse questo epigramma:

Un signor monumentale
con il cranio liscio e tondo
parla sempre col plurale
nell'articolo di fondo


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Nel cuore della notte, dopo una giornata spesa quasi tutta in redazione, con il giornale ancora fresco d'inchiostro, i giornalisti dell'Angiporto si ritrovavano in trattoria, da Rafele a piazza San Ferdinando o da Giacomino di fronte al Maschio Angioino. Trasfigurato nei ricordi, il vecchio vico Rotto San Carlo si anima di ombre. Sono le ombre dei giornalisti che popolarono quei luoghi. Le firme del Mattino (da Carlo Nazzaro a Gino Palumbo, da Mario Stefanile a Enrico Marcucci, da Riccardo Cassero a Lello Barbuto) e quelle dell'Unità (Enzo Striano, Ruggiero Guarini, Franco Prattico, Nino Sansone, Renzo Lapiccirella, Francesca Spada), di Paese Sera, del Tempo, del Corriere di Napoli. L'odore acre di piombo che prendeva alla gola.

Cosa è rimasto, oggi, di quell'incanto? Più nulla. Piazzetta Matilde Serao potrebbe essere uno degli angoli più suggestivi della città: è diventata invece un simbolo di decadenza e degrado, metafora di una città che non è più in grado di riconoscere e salvaguardare la propria memoria. Dov'era la redazione del Mattino s'insediò prima la sede della Usl 37, poi uffici e bed & breakfast. Nei luoghi occupati dalla redazione dell'Unitá, invece, subentrò il provveditorato agli studi con alcuni suoi uffici, poi altri studi privati.

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Tra gli americani padroni assoluti del Porto, e il Pci di Amendola e Cacciapuoti arroccato su posizioni staliniste, si snoda la tormentata storia umana e professionale di Francesca Spada, ricostruita da Rea in Mistero napoletano. Francesca («scandalosamente romantica e decadente») non era solo una giornalista, ma una comunista divorata da una febbre politica «che l'induceva ad assumere talvolta atteggiamenti da pasionaria». Nel 1953 Ermanno Rea e Francesca Spada cercarono di convincere Renzo Lapiccirella, numero due della redazione napoletana dell'Unità, che il Porto di Napoli era stato sequestrato dagli americani perché Achille Lauro era un docile strumento nelle mani degli americani, un «sindaco-Cia» costruito su misura dai servizi segreti durante la sua prigionia a Padula.

Il Porto, con i suoi lastrici sgangherati e con le sue darsene «dalle quali torreggiavano immensi relitti arrugginiti di navi», è una presenza costante nel lungo racconto di Rea; un «tragico ammasso di passato» che anziché segnare il punto di partenza di un possibile sviluppo autonomo della città ne segnò invece la prigionia, e fece di Napoli un trappola piena di bagliori.

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Nel 1960 Eleonora Puntillo, firma tra le più appassionate e note del giornalismo napoletano, era solo una ragazza. Prese lei il posto di Francesca nella redazione dell'Unità, quando la protagonista del romanzo di Rea decise di trasferirsi a Roma per seguire il marito Renzo. Al quarto piano del palazzo dell'Angiporto Nora entrò in punta di piedi. «Ero arrivata lì - ricorda - con le migliori credenziali, quelle di Paolo Ricci, con il quale collaboravo per il giornale Il Vomero. Legai subito con Andrea Geremicca, con Ennio Simeone, con Franco De Arcangelis. La ricordo bene, Francesca. Era in procinto di trasferirsi a Roma, per raggiungere Lapiccirella. Un giorno ci incontrammo per caso alla libreria Minerva. Eravamo entrambe lì per acquistare lo stesso libro: le Poesie di Rainer Maria Rilke, tradotte da Giaime Pintor».

È lo stesso libro trovato accanto al letto di Francesca Spada, quando la giornalista si tolse la vita, il 31 marzo del 1961. Il libro era aperto sulla pagina dell'Alcesti.

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Un dio glaciale, implacabile e potentissimo, vuole a ogni costo la vita di Admeto, figlio di Fere. C'è una sola possibilità di salvezza: che qualcuno si sacrifichi al suo posto. Siamo tra i meravigliosi, terribili versi di Alcesti, la poesia di Rilke che ricalca le tragiche vicende del personaggio di Euripide. Alcesti è la moglie che si offre al dio infernale per salvare il marito Admeto.

Francesca amava quella poesia; o, forse, ne era tormentata. La Spada era un'«irregolare» e sul suo conto l'ufficio quadri del Pci condusse un'indagine spietata. Il partito, guidato a Napoli dall'amendoliano Cacciapuoti, non fece sconti né a lei né a Lapiccirella, intellettuale a cui fu impedito ogni avanzamento politico. «Bocciata dalla vita, dalla malevolenza degli uomini e forse perfino dalla malevolenza sua contro se stessa», Francesca si toglierà la vita il 31 marzo 1961, nella sua casa di via Nazareth, ai Camaldoli.

Quel giorno Nora è tra i primi ad arrivare sul posto. Di corsa, in macchina, con Andrea Geremicca. Renzo Lapiccirella è disteso sul divano, piange a dirotto. Il dramma è compiuto. Solo tre giorni prima, il 28 marzo, Francesca aveva finito di scrivere il suo romanzo, Nell'acquario di Angiporto Galleria, rimasto dimenticato per cinquant'anni in uno scatolone di vecchie carte e ritrovato nel dicembre del 2013 dalla figlia Viola Lapiccirella (vedi Il Mattino dell'11 aprile 2018).

Come la Alcesti del mito, è lei - Francesca - a offrirsi in pasto al dio famelico (il Partito comunista?) e salvare così la vita al suo uomo: Admeto-Renzo. Prendimi, dunque, prendimi per lui, sembra sussurrare la giornalista all'implacabile Moloch.

«Anni chiedeva, solo un anno ancora
di giovinezza, mesi, pochi giorni,
ah, non giorni, ma notti, una soltanto,
solo una notte, questa notte: questa».
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