L'antro dei maghi liutai:
quel suono perfetto
che arriva dal passato

L'antro dei maghi liutai: quel suono perfetto che arriva dal passato
di Vittorio Del Tufo
Domenica 26 Gennaio 2020, 20:00
6 Minuti di Lettura
«Li sarracini adorano lu sole
et li turchi la luna cu li stelle
et io adoro chesti trezze belle».

(Nuova Compagnia di Canto Popolare, Li sarracini adorano lu sole).
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Verso la fine del 500 molti liutai di Füssen, in Baviera, scesero in Italia per cercare fortuna, stabilendosi in quelle che all'epoca erano considerate le grandi capitali musicali europee: Napoli, Roma, Venezia e Firenze. Quella dei liutai tedeschi fu una vera e propria migrazione all'incontrario: scelsero Napoli artigiani famosi come Magnus Lang I (Magno Longo I), Matthäus Selloß, Jacob Stadler, Georg Kayser, David Tecchler. Portarono con sé le proprie conoscenze e, grazie al contatto con i musicisti italiani, poterono ampliarle. Erano costruttori di liuti, tiorbe, colascioni e chitarre: è verosimile che la loro presenza abbia contribuito alla nascita del mandolino, strumento che nel corso del tempo ha acquisito una connotazione prettamente popolare, senza dimenticare che Antonio Vivaldi nel XVIII secolo lo utilizzò come strumento solista in un suo famoso concerto, portandolo, quindi, anche in ambito colto.

Quello dei liutai era un mondo magico forgiato dalle mani di artigiani tenaci, che finanche dai capitelli delle chiese traevano spunto per le rifiniture dei propri strumenti. A partire dal 700 Napoli è stata culla di una lunga tradizione liutaria. Un'eccellenza di cui oggi è rimasta un'eco lontana.

Ombre. Memorie di vite passate. La scuola napoletana dei liutai deve molto a don Alessandro Gagliano, con il quale iniziò una vera e propria dinastia che ha dominato la scena napoletana per circa due secoli, dal 1700 alla fine dell'800. A Gagliano, considerato il primo grande liutaio napoletano, veniva in passato attribuita una frequentazione con il grande Antonio Stradivari, il maestro di Cremona. In realtà Alessandro restò sempre a Napoli: dagli anni giovanili, durante i quali intraprese lo studio del violino al Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, fino alla morte avvenuta nel 1734. È certo, invece, che il figlio di Stradivari, Omobono, trascorse un periodo a Napoli, notizia che compare nel testamento di Stradivari padre ritrovato pochi anni fa. Alessandro trasferì i ferri e i segreti del mestiere ai figli Nicola e Gennaro, i quali, a loro volta, insegnarono l'arte ai propri figli, di generazione in generazione, fino all'ultimo dei Gagliano, Vincenzo, morto nel 1898.

L'album di famiglia della liuteria napoletana, tradizione e vanto della nostra terra, è molto affollato. Se Gagliano è sinonimo di liuteria ad arco, per quanto riguarda la liuteria a pizzico bisogna guardare alla famiglia Vinaccia, di cui furono capostipiti Gennaro e Antonio (alla fine del XVII secolo), e alle famiglie Fabbricatore, Filano e Calace.

Un albero dai frutti rigogliosi. Nel cuore della città, prima e dopo il piccone del Risanamento, batteva il cuore magico dei liutai: è un respiro ancora oggi lontano e potente, che risuona negli strumenti forgiati da artigiani esperti. Roberto De Simone disse una volta che costruire una chitarra battente «presuppone intuiti misteriosi, magnetiche applicazioni di tempi da trascorrere fragilmente, con la complice partecipazione di un'anima che è in grado di comporre un cuore per altri cuori». Nel corso dell'800, parallelamente alla famiglia Gagliano, erano attivi a Napoli liutai come Ventapane, Jorio, Della Corte e Vincenzo Postiglione, la cui bottega sorgeva ai Quartieri Spagnoli, in vico Tre Regine. Postiglione riportava spesso, sull'etichetta oppure all'interno della tavola armonica, l'Occhio della Provvidenza, simbolo massonico.

Nel 900 operavano in città i Calace (tra via Egiziaca a Pizzofalcone e piazza dei Martiri) e i Loveri. E ancora Alfredo Contino (allievo di Postiglione), Vincenzo Sannino, Armando Altavilla, Giovanni Pistucci, Giovanni Tedesco, Giuseppe Tarantino (che aveva la bottega in via Sapienza), Vittorio Bellarosa, fino ad arrivare a Carmine D'Aguanno, ultimo esponente di questa grande tradizione. Attorno a questo grande cerchio di liutai, che hanno sempre interpretato più che copiato, creando secondo il proprio gusto, ruotava una miriade di liutai minori, intagliatori oppure lavoranti semplicemente portati per lavori manuali, che vendevano strumenti o parti di strumenti di loro fattura per arrotondare le entrate, cosa che a volte rende estremamente difficile attribuire una paternità assoluta a molti pezzi napoletani.

La famiglia Loveri è presente nello scenario musicale napoletano e internazionale dalla metà del Settecento. I fratelli Giuseppe e Gaetano erano copisti, correttori, autori di cori, salmi, litanie, musica sacra e profana. Ma lo storico negozio Loveri di via San Sebastiano, dal quale si rifornivano artisti del calibro di Pino Daniele, Enzo Gragnaniello e Gigi Finizio, oggi purtroppo ha chiuso i battenti, travolto dalla crisi. Dopo essere sopravvissuta, in passato, ai morsi della miseria, ora questa nobile arte deve vedersela con le friggitorie, i B&B, il food&beverage. Con un'economia del vicolo che cambia. E cambia talmente in fretta da stravolgere la stessa geografia urbana della città, a partire dal suo centro storico.
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Il laboratorio di Gaetano Pucino sorge nel cuore di San Domenico Maggiore, nelle antiche sale da ballo di Palazzo Sansevero, proprio nel luogo dove un principe-mago, Raimondo di Sangro, metteva a punto le sue strabilianti invenzioni. «A differenza di alcune scuole di liuteria italiane, la prerogativa di quella napoletana - ci spiega Gaetano - è il fatto che non ha mai subito interruzioni, nel senso che ogni liutaio ha appreso la sua arte nella bottega del suo maestro, prendendo con sé, ovviamente, tutto ciò che è lo stile e l'organizzazione del suo lavoro. Possiamo quindi dire che uno strumento napoletano costruito nella metà del 900 ha le stesse peculiarità di strumenti settecenteschi». Peculiarità che si possono riconoscere nei piccoli particolari come la filettatura, nell'uso di varie essenze (quasi sempre il faggio) con l'aggiunta a volte anche di carta; nel riccio (la scultura alla fine del manico) minuto. Uno stile che nasconde genialità e innovazione. Proprio come gli athanor degli antichi alchimisti.

È ancora possibile portare avanti la tradizione? Come reinventare l'arte della liuteria? «Producendo oggi strumenti con l'esatto perimetro di quelli del passato - spiega Pucino, impegnato da anni in uno straordinario lavoro di recupero della memoria, dal quale sarà tratto presto un libro scritto a quattro mani con il liutaio Eric Blot - e copiando ogni loro minimo particolare, lo stile napoletano si infonde nella persona, diventa la personalità di chi lo produce. Così questo (stile) può continuare ed esprimersi attraverso i nuovi liutai e non più attraverso i violini. Questo è quello che da vent'anni cerco di fare nella mia bottega, visionando antichi strumenti napoletani, tra i quali quelli meravigliosi custoditi nel Conservatorio di San Pietro a Majella e altri di collezioni private, fotografandoli, analizzandoli con lente d'ingrandimento per imprimerli nella mia mente e rielaborare uno stile personale e partenopeo. Questo lavoro inizia a produrre i suoi primi frutti grazie ai giovani allievi che negli anni hanno frequentato le scuole dove ho insegnato o fatto pratica nella mia bottega. Vedo in loro la trasformazione che sono certo diventerà tradizione per il futuro».

«Ciò che rende affascinante la liuteria napoletana minore - spiega il maestro liutaio Jens Norskov - è l'arte di arrangiarsi con materiali poveri, come assi magari recuperate da un vecchio letto. Strumenti a volte grezzi, asimmetrici e costruiti visibilmente in fretta con pochi attrezzi a disposizione, ma che spesso sono di qualità acustiche ottime, di grande personalità e ricoperti da una vernice splendida e trasparente».

Oggi delle antiche famiglie di liutai rimangono pochi eredi decisi a continuare seguendo le orme dei propri antenati. Con Pucino e Norskov resistono i fratelli Sirleto, a via Costantinopoli, gli ultimi Calace, in piazza San Domenico, Masiello a Santa Chiara, Anastasio a Posillipo, i liutai di Anema e corde a Port'Alba e pochi altri: nei loro laboratori, profumati di memorie, si studia il passato senza smettere un solo istante di inventare il futuro. Con la stessa passione di Stradivari. 
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