Don Giustino, fate luce:
la sera andavamo
nel salotto di via Colonna

Don Giustino, fate luce: la sera andavamo nel salotto di via Colonna
di Vittorio Del Tufo
Domenica 24 Maggio 2020, 20:00
6 Minuti di Lettura
«Però la Storia non si ferma davvero
Davanti a un portone
La Storia entra dentro le nostre stanze e le brucia
La Storia dà torto o dà ragione
La Storia siamo noi»

(Francesco De Gregori, La Storia)
* * *
Don Giustino era un personaggio d'altri tempi, sembrava uscito dalle pagine di Cent'anni di solitudine, il capolavoro di Gabriel Garcia Marquez. Aveva la prodigiosa memoria dei vecchi, ricordava tutto di tutti, anche degli antenati che avevano prestato servizio presso i Borbone, ed era leggendario il suo pessimismo, tanto che i detrattori lo chiamavano l'apostolo del nulla. I suoi amici, invece, quando parlavano di lui lo definivano una quercia da giardino, un patriarca rasserenatore. Quando entravano nella sua casa, in punta di piedi, per prima cosa si imbattevano in un grande ritratto di Lev Tolstoj, la barba fluente candidissima, e poi vedevano lui, don Giustino, seduto su una poltrona, quasi affondato, una coperta sulle ginocchia, un libro tra le mani, una sciarpetta amaranto al collo. La sua casa, in via Vittoria Colonna, a due passi da piazza Amedeo, era un eremo silenzioso dove don Giustino si rimpiccioliva a vista, ogni anno, senza turbarsene più di tanto, perché i suoi occhi restarono fino all'ultimo spalancati sul mondo.

Un giorno, era la primavera del 1925, alle otto del mattino bussò a casa di don Giustino un trafelatissimo Giovanni Amendola, figura di spicco dell'antifascismo napoletano, padre di Giorgio, futuro dirigente del Partito Comunista.
«Ecco, don Giustino, il manifesto degli intellettuali antifascisti scritto da Croce. Ora vi lascio le cartelle. Leggetele. Tornerò stasera a riprenderle. Intanto avrete deciso se firmare o no».
«Prontissimo. Ma non è necessario che torniate stasera. Date qua la penna. Firmo subito».
«Come? E non volete leggere prima?».
«Leggere? E perché? Non è stato Croce a scrivere? Per me non occorre altro!».
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Questa è la storia di un «luogo della memoria» che negli anni a cavallo tra le due guerre fu uno straordinario incubatore di idee, amicizie, passioni civili: il salotto di Giustino Fortunato. Ovvero l'eremo di Chiaia dove il grande filosofo e politico lucano, tra i più importanti rappresentanti del meridionalismo, trascorse l'ultima parte della sua vita, coltivando rapporti, lui che aveva lasciato la politica attiva nel 1919, con nuove generazioni di politici e antifascisti del calibro di Piero Gobetti, Guido Dorso, Umberto Zanotti Bianco, Nello Rosselli, Manlio Rossi Doria, Giovanni Amendola e il giovane Giorgio. Nel 2014 Antonio Sarubbi, compianto professore di Storia delle dottrine politiche alla Federico II, anch'egli lucano e tra i massimi studiosi di Giustino Fortunato, ha ricostruito in un bel libro - dal titolo Il salotto di via Vittoria Colonna, pubblicato postumo da Homo Scrivens - il clima che si respirava nel cenacolo di Chiaia. Un salotto politico e culturale - proprio di fronte alla casa natale di Eduardo De Filippo - che fu anche luogo di incontro di intellettuali come Benedetto Croce, Francesco Saverio Nitti, Gaetano Salvemini e tanti altri.

Don Giustino - che era nato nel 1848 a Rionero in Vulture, in provincia di Potenza - fu tra i primi a comprendere la minaccia del fascismo. L'avvento della dittatura era stato per Fortunato la conferma delle sue più pessimistiche previsioni sulle condizioni dell'Italia, e da subito, a differenza di altri esponenti della classe dirigente liberale, ne fu deciso avversario.

Siamo nel salotto di via Colonna, dunque, nella primavera del 25, quando Amendola sottopone a don Giustino le «dieci, dodici cartelle» scritte da Croce. Ad Amendola restano pochi mesi di vita. Dopo la marcia su Roma e l'insediamento del governo Mussolini (16 novembre 1922), il deputato, difensore delle prerogative del Parlamento, aveva scelto una linea di ferma opposizione, diventando uno dei protagonisti dell'Aventino e subendo frequenti intimidazioni e aggressioni, che sfociarono nell'aggressione fisica il 26 dicembre 1923 a Roma, quando viene bastonato da quattro fascisti e ferito alla testa.

La Storia entra dentro le nostre stanze e le brucia. Quando Amendola bussa alla porta di don Giustino, sottoponendogli il Manifesto Croce, il grande vecchio non ha dubbi. Dove devo firmare? «Da pochi giorni - ricorderà poi - s'era pubblicato il Manifesto Gentile. Per quanto le firme che quel manifesto avesse raccolto fossero state di ben scarsa autorità, non si poteva lasciarlo senza una ribattuta. Non si poteva, cioè, consentire che tutto il gran mondo della cultura italiana, col suo silenzio, accreditasse quella esposizione artefatta di idee servili; e che tutti gli uomini di pensiero e di scienza della penisola, fossero presentati come un'accolita di chierici del fascismo».
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Anche Benedetto Croce era tra i frequentatori del salotto di Chiaia. Il filosofo Scrisse il Manifesto degli intellettuali antifascisti proprio su sollecitazione di Giovanni Amendola, e come risposta al Manifesto degli intellettuali fascisti di Giovanni Gentile.

Il Manifesto redatto da Croce fu pubblicato il 1º maggio del 1925 sui quotidiani Il Mondo e Il Popolo, quattro mesi dopo il colpo di stato di Mussolini che aveva sancito il fallimento dell'Aventino. Il Manifesto degli intellettuali antifascisti sancì la definitiva rottura col fascismo del filosofo nato a Pescasseroli. Tre anni prima, nell'ottobre del 1922, dunque nei giorni della Marcia su Roma, don Giustino si era trovato in casa di don Benedetto, a Spaccanapoli, nel crocchio dei soliti vecchi amici del maestro. Era una domenica pomeriggio. La notte prima erano stati esplosi, a Napoli, centinaia di colpi di rivoltella. Era stato invaso e saccheggiato l'ufficio della redazione napoletana de Il Mondo, a Santa Brigida. Si discuteva, in casa Croce, degli avvenimenti che incalzavano, di ora in ora. Fu un duello. Fortunato non riusciva a perdonare a Croce la sua eccessiva indulgenza nei confronti del fascismo (Croce sarebbe diventato poi uno dei più ferrei contestatori del regime). Le parole di don Giustino, a un certo punto, presero un tono tragico: «Non mi chiamate Stato forte - disse - quello che nasce non da una legittimità qualsiasi, ma da un'insurrezione di bande. Domani altre bande, con altro vessillo, lo rovesceranno. È certamente la fine del nostro Stato liberale». Poi don Giustino andò via, imbacuccato in un doppio pastrano. Si rincantucciò senza una parola nella carrozza a due cavalli che lo aspettava giù per riportarlo a casa, in via Vittoria Colonna. «Per tutto il tragitto rimase a testa bassa, in silenzio, invaso d'un sordo rancore verso se stesso. Piazza Trinità Maggiore, Toledo, Chiaia, già crepuscolari, formicolavano di camicie nere». (Sarubbi).
* * *
Gli ospiti di don Giustino entravano in punta di piedi nel salotto di via Colonna, dove il grande ritratto di Tolstoj dominava una grande libreria che occupava un'intera parete. L'anziano meridionalista, il viso fatto piccolo dagli anni, il pizzetto bianco, continuò fino all'ultimo giorno a fissare in faccia la vita. Nel 1930 nella casa di via Colonna entrò anche un giovane Indro Montanelli, al tempo redattore di un piccolo quindicinale fiorentino e appassionato di temi meridionalistici.

«Un giorno ricevetti questo biglietto: Caro signore, seguo con molto interesse i suoi articoli. Purtroppo non sono d'accordo con le conclusioni e se viene a trovarmi gliene spiegherò il perché». Anni dopo, nel libro L'Italia dei notabili, Montanelli definì Giustino Fortunato «il più grande e illuminato studioso del Meridione».

L'intellettuale che amava Tolstoj difendeva il suo pessimismo innato, che non gli impediva di regalare parole di speranza a quanti si battevano per un'Italia migliore, negli anni del Duce e delle camicie nere. Una volta, radunando, nel crepuscolo della vita, gli amici di sempre, li affrontò così:

«Della nomea di pessimista che mi perseguita da un quarantennio, almeno, confesso di non aver mai avuto a dolermi. Pure, ascoltatemi! Posso ben confidarvelo oggi che sono qui, su questa poltrona, mezzo cieco, sulle soglie dell'Ade, come direbbero i classici; con un piede nella fossa, avrebbe detto invece mia madre: se ci fossimo tutti tenuti un po' giù, un po' pessimisti, in quel volgere di anni che furono sacri, invece, al petardismo, al dionisismo nazionalista, infine alla sbornia ottimista; vi giuro che si sarebbe fatta opera salutare, veramente caritatevole per il nostro Paese. Vi giuro che il senso dell'abbagliante realtà avrebbe finito per prevalere nella maggioranza. E avremmo acquistato coscienza più illuminata del nostro giusto posto in Europa e nel mondo».

Ogni volta che un vecchio muore una biblioteca va in fiamme, recita un antico proverbio africano. Le biblioteche di Napoli andarono in fiamme il 23 luglio 1932, quando il patriarca rasseneratore morì: con la schiena dritta, come aveva vissuto.
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