L'Eletto del Popolo sepolto vivo i giorni del pane e dell'orrore

L'Eletto del Popolo sepolto vivo i giorni del pane e dell'orrore
di Vittorio Del Tufo
Domenica 27 Maggio 2018, 20:00
6 Minuti di Lettura
«In galera li panettieri
mò ca s'erano arreccuti
tutti s'erano resoluti
deventare cavalieri
in galera li panettieri»

(Nuova Compagnia di Canto Popolare)

* * *

Alla fine del 500, in pieno vicereame spagnolo, l'amministrazione del potere in città era affidata agli eletti dei seggi nobili (con sei rappresentanti) e a quello del seggio popolare (un solo eletto). Il rapporto, dunque, era di cinque voti a uno, decisamente sbilanciato a favore dei nobili, che delle istanze popolari se ne fregavano allegramente. Nel 1585 la sciagurata decisione del viceré, il duca di Ossuna, di esportare il grano napoletano in Spagna, con il conseguente aumento del prezzo del pane, provocò una drammatica carestia che sfociò in una violenta insurrezione, la quale ebbe il suo culmine il 9 maggio con il linciaggio dell'Eletto del popolo, Giovanni Vincenzo Starace. Che in quell'occasione indossò i panni del perfetto caprio espiatorio.

Il poveretto, al termine di un'assemblea imposta da una moltitudine tumulante, fu giudicato colpevole per aver dato il suo assenso, con gli altri eletti della città, all'esportazione di grano. Ma sarebbe meglio dire per non essere riuscito a evitarla. Né riuscì ad evitare la «beffa del pane». Gli eletti dei seggi nobili, infatti, avevano decretato la riduzione del peso del pane (da 28 a 24 once) lasciando tuttavia inalterato il prezzo: 4 grane. A difesa di Starace bisogna dire che in quei giorni era bloccato a letto da una malattia debilitante. A ogni modo, pur malato e privo di forze, l'Eletto provò a mediare, ma non fece in tempo a far valere le sue ragioni. E pagò con la vita i suoi errori.

Una celebre villanella composta in quel periodo e riscoperta nei primi anni 70 dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, «In galera li panettieri», racconta meglio di tanti libri il clima di corruzione, nonché le manovre speculative dei baroni feudali e di quei panettieri che, credendosi furbi, cercarono di approfittare della crisi per arricchirsi, e mal gliene incolse.

Un luogo, più di altri, ci riporta a quegli anni, a quel clima, a quell'insurrezione che precedette di sessant'anni la rivolta di Masaniello. Quel luogo è Sant'Agostino alla Zecca, dove si tenevano le adunate popolari e dove aveva sede il Seggio del Popolo. Qui l'Eletto Starace, che aveva cercato (senza riuscirci) di rimediare alla scellerata decisione del viceré, fu trascinato dalla folla inferocita e accusato pubblicamente di non aver tutelato gli interessi del popolo. Tra insulti, sputi e bestemmie, il capro espiatorio fu condotto alla gogna. Per sottrarsi al linciaggio cercò di nascondersi in una cappella della chiesa, ma fu raggiunto dai manifestanti più scalmanati, ferito con una stoccata al petto e rinchiuso, ancora vivo, in una tomba della cappella. Poi, agonizzante, fu tirato fuori dal sepolcro, portato di peso, ormai morente, in piazza della Sellaria (oggi Piazzetta Archivio di Stato, all'epoca uno dei quartieri più popolari della città) e finito a colpi di pietra. Infine fu squartato, mutilato del cuore, delle budella e definitivamente smembrato. I resti vennero sparsi per le vie della città. E tanti saluti al rappresentante del popolo.

L'uccisione di Starace fu carica di macabri rituali simbolici: «strascinamento», mutilazione ed evirazione del cadavere, ostentate minacce di cannibalismo, antropofagia, vendita della carne «cristiana» (vedi Rosario Villari, Un sogno di libertà). Il sangue di Starace chiamò altro sangue. Contro i panettieri, accusati più o meno subdolamente dalle autorità di speculare sulla carenza di grano, si scatenò la vendetta della plebe.

* * *

«In galera li panettieri
se credevano già baroni
d'affamà la pupulazione
nun se davano penzieri
in galera li panettieri».


* * *

La rivolta del pane mostrò una notevole capacità di mobilitazione degli strati subalterni della popolazione. Il duca d'Ossuna stroncò l'insurrezione alla maniera sua (e della Corona di Spagna): con un bagno di sangue. Da un lato si rimangiò le disposizioni sul pane: anzi, fece importare farina. Dall'altro, per vendicare l'Eletto del Popolo, organizzò una delle più terribili cacce all'uomo della storia del vicereame. Le vittime furono decapiate e i loro corpi dilaniati come quello del povero Starace. Mani e teste mozzate, a futura memoria, furono appese in una gabbia di ferro alla Sellaria, dove abitava l'Eletto. Il duca d'Ossuna, questo viceré megalomane e sanguinario, sarebbe passato alla storia per aver completato il restauro del famoso acquedotto della Bolla. Tolse il pane ai napoletani, ma non fece mancare loro l'acqua. Un anno dopo il massacro, fu sostituito dal conte di Miranda Juan de Zunica.

Il martirio dell'Eletto Starace è ricordato oggi da una strada che porta il suo nome: via Eletto Starace, appunto. È la traversa che dal numero 128 del corso Umberto conduce, dopo una breve rampa di scale, in via Ferri Vecchi e in via Lucrezia d'Alagno, nei pressi della fontana della Sellaria. È la strada attraverso la quale l'uomo del popolo fu condotto al martirio. Piazza della Sellaria e Sant'Agostino alla Zecca erano a quei tempi tra le zone più popolari dela città. La Sellaria, oggi piazzetta Archivio di Stato, è stata fino alla metà del 400 sede del Seggio del Popolo. Quando il Seggio fu abbattuto la sede fu trasferita proprio a Sant'Agostino alla Zecca.

* * *

La chiesa di Sant'Agostino alla Zecca, teatro del supplizio dell'Eletto Starace, fu chiamata così perché, nel 1681, vi fu edificato accanto l'edificio della Zecca. In tempi remoti in questa zona della vecchia Napoli, fuori porta Forcellese, era stato eretto un cenobio di suore benedettine. Carlo I d'Angiò, che ampliò la città portandone le mura fino a piazza Mercato, aveva talmente a cuore il benessere delle nobildonne napoletane in ritiro nel vecchio cenobio da far ampliare il convento, dotandolo di ricche rendite.

* * *

Trentotto anni dopo il terremoto del 1980, che gli diede la spallata definitiva, il complesso monumentale di Sant'Agostino alla Zecca - un tesoro che risale all'epoca angioina - è ancora sbarrato, abbandonato, preda dei vandali. I lavori di messa in sicurezza sono eterni. Fine cantiere: mai. E il saccheggio è continuo: trafugate le colonnine di marmo del sagrato, portati via anche gli angioletti che reggevano le candele alla base delle colonne. Solo il vicino chiostro, sopravvissuto al piccone del Risanamento, è stato recuperato grazie un'associazione culturale e all'iniziativa dei privati. Oggi vi si accede dal secondo piano di un edificio ottocentesco adiacente la chiesa, con ingresso dal corso Umberto 174. Il campanile, uno dei più alti e superbi della città, è ancora oscurato e chissà per quanto tempo ancora lo sarà. Nell'aprile 2011 un blocco di piperno si staccò dal campanile crollando sulla strada, un anno dopo furono approvati i lavori di consolidamento della struttura. Che oggi come ieri, cade letteralmente a pezzi.

* * *

A Napoli c'è un vicoletto che, più di altri, ricorda l'antica e nobile categoria dei panettieri. Si snoda parallelamente a via Duomo, inerpicandosi da via San Biagio dei Librai a piazza Girolamini. È il «vico nero» che «non finisce mai» e che ispirò il celebre brano Carmela, frutto del sodalizio tra due geni, il poeta Salvatore Palomba e il maestro Sergio Bruni. Vico Panettieri è chiamato così fin dal XIV secolo per la presenza, nelle vicinanze, di numerosi forni pubblici. Vi sorgeva il Conservatorio dei poveri di Gesù Cristo, poi divenuto seminario arcivescovile. Attualmente ospita le suore di Madre Teresa di Calcutta, che da anni mettono a disposizione i locali dell'antico convento, a due passi dalla chiesa dei Girolamini, per accogliere chi non riesce a garantirsi neanche un pasto al giorno.
© RIPRODUZIONE RISERVATA