Il marinaio coraggioso
riemerso dalle onde
per terrorizzare il Re

Il marinaio coraggioso riemerso dalle onde per terrorizzare il Re
di Vittorio Del Tufo
Domenica 28 Aprile 2019, 20:00
5 Minuti di Lettura
«Forse un giorno gioverà ricordare tutto questo»
(Eleonora Pimentel Fonseca).
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La leggenda narra che nel luogo dove oggi sorge la chiesa di Santa Maria della Catena, in via Santa Lucia, verso la fine del 300 tre «luciani», innocenti, vennero condannati all'impiccaggione. Ma a causa di un violento uragano l'esecuzione fu rimandata e i condannati passarono la notte incatenati l'uno all'altro. Mentre gli sventurati, bagnati fino all'osso, imploravano la pietà della Vergine per ottenere la salvezza, le catene si spezzarono consentendo loro di fuggire. Nel luogo della «grazia» fu quindi edificata una cappella che nel 1576 fu poi ingrandita per iniziativa dei pescatori di Santa Lucia. Gli stessi pescatori che oltre due secoli dopo, mossi a pietà, deposero nella chiesa di Santa Maria della Catena il corpo di Francesco Caracciolo, l'ammiraglio della Repubblica Partenopea che morì impiccato nel 1799 per volere dell'ammiraglio inglese Orazio Nelson e della sua amante Lady Hamilton, entrambi consiglieri del re Ferdinando IV di Borbone.

Il corpo di quel marinaio coraggioso, raccolto dopo l'esecuzione nei pressi del Castel dell'Ovo, fu prima deposto nella cripta, destinata originariamente a uso funerario, e poi collocato nel transetto sinistro della chiesa, sormontato da una grande epigrafe marmorea. Un epitaffio, posto nel 1881 in occasione della riapertura al culto della chiesa, ricorda con una certa enfasi il contesto della condanna a morte dell'ammiraglio.

Francesco Caracciolo,
ammiraglio della Repubblica Napoletana,
fu dall'astio dell'ingeneroso nemico
impeso all'antenna il 29 giugno del 1799.
I popolani di Santa Lucia
qui tumularono l'onorando cadavere

Visitare la chiesa di Santa Maria della Catena equivale a immergersi in una delle pagine più emozionanti, e terribili, della breve stagione rivoluzionaria del 1799. Antonio Ghirelli, nella sua Storia di Napoli, scrisse che quella rivoluzione di élite, e non di popolo, si chiuse «su un capitolo sublime». Caracciolo era stato condannato a morte e il marinaio che aveva ricevuto l'ordine di preparargli il capestro non riusciva a trattenere il pianto: allora Caracciolo gli disse «Sbrigati: è ben grazioso che, mentre io debbo morire, tu debba piangere». Ma come si era arrivati a quel punto?
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Il marinaio Francesco Caracciolo proveniva da una famiglia di antico e nobile lignaggio. Era nato nel 1752, in una casetta sulla spiaggia di Mergellina. Avviato giovanissimo alla carriera marinara, divenne presto uno degli ufficiali più valorosi della Real Marina del Regno di Napoli, entrando nei massimi ranghi della flotta borbonica al comando del nobile inglese Giovanni Acton, giunto a Napoli al servizio di re Ferdinando IV. Tenente di vascello, poi capitano di fregata impegnato a combattere le scorribande dei pirati nel Mediterraneo, Caracciolo ebbe modo di farsi notare e apprezzare non solo da Acton ma dal sovrano in persona. Così entrò a far parte della flotta anglo-napoletana e, al fianco di Orazio Nelson, dimostrò il suo valore negli scontri che opposero la prima coalizione europea alla Francia rivoluzionaria. Ma quella stagione di gloria si concluse con l'avanzata inarrestabile del generale Championnet; il 10 dicembre 1798 l'esercito napoletano fu sconfitto dai Francesi e, per Ferdinando e consorte, il clima nella capitale del Regno divenne irrespirabile. Quando, il 27 dicembre 1798, i sovrani si imbarcarono sul vascello Vaguard di Orazio Nelson per scappare a Palermo, Caracciolo uscì dal suo palazzo di via Santa Lucia e seguì con il suo vascello, il Sannita, i reali nella fuga in Sicilia: era legato alla dinastia da un giuramento e non voleva venirvi meno. Fu questo tormentato viaggio, per certi versi, a segnare la sorte di Caracciolo. L'ammiraglio, sul cui bastimento venne imbarcato il tesoro della Corona, riteneva che la fuga del re sarebbe stata meno disonorevole se compiuta su una nave napoletana. Lo pensava e lo disse, facendo andare su tutte le furie il permalosissimo Nelson. Il quale, inoltre, dovette subire una gravissima onta. La sua nave uscì malconcia dalla burrascosa traversata verso Palermo, tanto che riuscì a entrare nel porto solo grazie a un piccolo legno napoletano che prese a rimorchio il Vanguard. Il Sannita, invece, uscì indenne dalla tempesta arrivando a Palermo in perfette condizioni. E Nelson schiumò ancora una volta di rabbia.
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Le lancette della Storia avanzano, velocemente. Fine gennaio 1799, il generale Championnet entra a Napoli, i giacobini napoletani (il fiore dell'intelligenza meridionale, scrisse Benedetto Croce) proclamano la Repubblica Partenopea. Colmo di amarezza per la distruzione della flotta napoletana, Caracciolo implora il re Ferdinando di autorizzarlo a tornare per un breve periodo a Napoli, giusto il tempo di provvedere al suo ingente patrimonio. Ma in città resta coinvolto nel clima rivoluzionario, e finisce per cedere alle insistenze dei repubblicani: «Il re ha tradito il popolo abbandonando Napoli, e tu dunque mettendoti con noi non rinneghi alcun giuramento». Divenuto ministro della marina repubblicana, Caracciolo dichiara subito: «Iddio mi è testimonio che solo l'amore per la Patria mi induce a questo».

Sappiamo tutti come andarono le cose. Quando l'armata sanfedista guidata dal cardinale Ruffo risalì la penisola costringendo i sostenitori della Repubblica Partenopea a chiedere la resa, la repressione del regime borbonico fu terribile. E a interpretare al meglio il desiderio di vendetta di Ferdinando e Carolina furono l'ammiraglio Nelson e lady Emma, sua amante, moglie dell'ambasciatore inglese William Hamilton e confidente della regina.

È l'epilogo. Il 29 giugno 1799 Caracciolo è arrestato e condotto sulla nave di Nelson, il Foudroyant, per essere sottoposto ad un processo farsa. Nelson ordina che il colpevole di tradimento sia subito giustiziato. La condanna viene eseguita il 30 giugno: Caracciolo viene impiccato all'albero di trinchetto della nave Minerva, al tramonto il suo corpo viene staccato dal pennone e gettato a mare. Due giorni dopo, il cadavere riemerge dalle acque malgrado il peso legato alle gambe. Il caso vuole che il corpo di Caracciolo affiori proprio sotto gli occhi del superstizioso re Ferdinando, che in quel momento era a bordo della nave di Nelson, affacciato sul bordo. Il sovrano ne resta inorridito, realizza in un attimo che quel cadavere gonfio d'acqua sarebbe ricomparso ancora, e ancora, e ancora, a popolare i suoi incubi; chiede a un sacerdote cosa avesse voluto dirgli il suo ex combattente, venendogli incontro in quel modo. È una richiesta di cristiana sepoltura, gli risponde il prete. Il corpo di Caracciolo, portato a terra e deposto sotto la baracca di un venditore di frutti di mare, viene così sepolto nella chiesa di Santa Maria della Catena a Santa Lucia. Accolto come un martire dai suoi luciani, e benedetto dalle lacrime dell'intero borgo.
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Alla memoria del più grande marinaio della storia di Napoli è dedicato il più bel lungomare del mondo. Fu costruito su una grande colmata, realizzata tra il 1869 e il 1880. Prima di allora il mare giungeva quasi fino ai palazzi della Riviera di Chiaia, e lambiva anche la chiesa dove fu seppellito il corpo del marinaio-eroe, cittadino tra i cittadini, perduto nella burrasca di una Rivoluzione finita troppo presto.
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